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§ 17. Omonimia e sinonimia. Se teniam conto delle cose dette, la questione lessicologica si presta ad essere guardata sotto un diverso e più profondo punto di vista. Può dirsi, cioè, che ogni lingua è piena di omonimi, se notiamo che ognuno, creando volta a volta il proprio linguaggio, si vale dei medesimi simboli acustici per rappresentazioni che non sono mai identiche totalmente alle precedenti e che variano sempre, più o meno, da individuo a individuo. Di mano in mano che un uomo progredisce, i termini (come, ad es., ingegno, spirito, amore ecc.) acquistano per lui un significato diverso. Si sa che non vi sono due persone che usino, per esempio, la parola ingegno con la medesima accezione. V'ha chi designa, con questo vocabolo, certe qualità di originalità, chi se ne serve per designare, invece, l'acume, la sagacia o la vigoria intellettuale, ecc. ecc. Abbiamo, in siffatti casi, l'omonimia, la quale non è ottenuta dal confluire di basi distinte in una stessa forma fonetica. E questa omonimia, idealisticamente parlando, non è meno importante dell'altra, che nasce dall' incontro fonetico di due o più parole durante il loro svolgimento.

Ogni rappresentazione ha la sua espressione, che non può essere che quella e non altra, per ragione della completa identità fra le due cose; onde lo studioso idealista del linguaggio, mentre riconosce vastissimo il campo dell'omonimia, deve negare i sinonimi, e li considera quali espressioni erronee o imperfette. Essendo la lingua sopratutto artistica o alogica, è naturale che nello studio speculativo di essa non possa trovar posto, se non in sede secondaria, la sinonimia, la quale, in ogni caso, non può non trasformare la rappresentazione. Il Tommaseo chiamava « sinonimi » parole di significato affine o analogo ed ebbe cura di mettere in evidenza nel suo « Dizionario dei sinonimi »> (opera per più rispetti utilissima) la profonda divergenza d'accezione intercedente fra l'uno e l'altro termine da lui studiato; onde la lettura di quel libro, meglio di qualsiasi discussione, dovrebbe bastare a convincere uno spirito spregiudicato che sinonimi, nel vero senso del vocabolo, non esistono. Quando alcuno si serve dei cosiddetti «< sinonimi » per spiegare, o dilucidare esattamente un passo di un poeta, compie quel solenne tradimento, che compie ogni traduttore. A meno che non gli accada di dar vita a un'altra opera d'arte. E allora è un nuovo artista.

§ 18. Attualità del linguaggio. Ogni parola, insomma, usata da individui diversi o da un solo individuo, in momenti diversi, diventa un « omonimo ». A distanza di tempo, se si studia lo sviluppo semantico di un vocabolo, si vede quanto il senso possa essersi mutato, quanto cammino possa aver percorso lo spirito nelle direzioni più svariate, tanto svariate, che sarebbe erroneo pensare alla possibilità di

<< leggi semantiche », come è già erroneo ammettere, nel senso suesposto l'esistenza di « leggi fonetiche ». Chi pensa più, quando pronuncia pecunia, salario, emolumento, agli antichissimi modi di cambio o di retribuzione (bestiame, sale, farina) donde queste parole trassero origine? Chi pensa più, quando pronuncia ministro, all'umile servitore chiamato minor, minister? Noi ci serviamo dei vocaboli per le nostre nuove esigenze, per i nostri nuovi bisogni o, in una parola, per la storia.

Una mirabile evidenza raggiunge poi il linguaggio coi suoi copiosi casi di « enantiosemia », con i quali chi parla coglie nella sua reale attività il collegamento dei significati opposti, sintetizzandoli in una sola espressione e facendo che quest'ultima stringa in un'unità due sensi affatto contrari. Pel fatto che due significati sono opposti, esiste fra loro un'intima relazione. Chi può rappresentarsi l'idea di << sotto», senza rappresentarsi quella di « sopra » o l'idea di « declivio », senza quella di « salita »? Così, non penseremo mai la << morte », senza pensare la « vita », l'« essere », senza pensare il << nulla ». Questa operazione è eminentemente intuitiva, e il fanciullo e il volgo e i poeti la compiono con una immediatezza artistica, che colpisce e stupisce, quando, per esempio, affermano ingenuamente che il ghiaccio brucia o dicono indifferentemente della sera che sorge o che cala. E non ci augureremmo, noi, studiosi, che i nostri pensamenti fossero insieme alti e profondi, mentre può accadere che altri seduta stante ci provi che « sono pieni di nulla» Questo, degli op. posti, è un procedimento fondamentale dello spirito che si manifesta anche in incroci curiosissimi, come nella voce ital. bonaccia (cioè propriamente il gr. malacia), in cui sentendosi un mal- si è introdotto un bon-, nel côrso macerbo « acerbo » il cui m è dovuto a maturo, e in rendere franc. rendre, che hanno preso il loro n da prendere, prendre. Nella lingua, così espressiva, dei bimbi incroci di carattere analogo avvengono di frequente. Noi ci affrettiamo a correggerli, mentre nella enantiosemia cadiamo naturalmente noi stessi. E vi cadiamo perchè la verità sull' intima relazione, che corre fra due termini opposti, è questa: che l'uno è la ragione essenziale dell'esistenza dell'altro.

§ 19. Arcaismi, neologismi, ecc. Nella lingua, considerata nella sua realtà individuale e concreta, non solo non esistono sinonimi, ma non si danno neppure veri e propri arcaismi. Nella sua attività, il linguaggio crea sempre le espressioni, le quali sono perciò, in ogni istante, neologiche. Quando Dante dice delle « arpie » (Inf, XIII, 13): << ali hanno late », si serve d'un latinismo, ma d'un latinismo, che ha una evidenza, quale le voci: grandi, enormi ecc. non potrebbero

mai raggiungere. La combinazione di ali con late (con l'a di lunghezza romanza) produce l'effetto voluto da Dante, e late, in questo caso, è la sola ed esatta parola espressiva dell' intuizione dantesca. È una magnifica parola, alla quale niun'altra potrebbe essere sostituita, senza distruggere la visione del sommo Poeta. È, dunque, un vocabolo fresco e nuovo, ricco di chiarezza e di suggestione.

Non esistono, insomma, nel linguaggio in atto, nè sinonimi nè arcaismi, ma soltanto omonimi e neologismi. I sinonimi e gli arcaismi li crea lo storico della lingua; il quale crea anche il passato, in genere, della lingua. Il linguaggio concreto è eterno, e la sua eternità consiste nella sua attualità. Esso non ha nè principio nè fine, come lo spirito. E chi volesse cercare l'origine delle lingue, dovrebbe in pari tempo cercare l'origine dello spirito!

CAPITOLO TERZO

La critica letteraria.

§ 20. Il concetto di critica letteraria. Un pensiero può estrinsecarsi in una sillaba o in più sillabe (in una « parola »); ma, se è ricco ed esteso, può anche esteriorizzarsi in una proposizione, in una poesia, in un poema o in un'opera d'arte. Anche quest'opera d'arte bisogna « conoscerla », cioè chiamarla a vivere in noi o farla nostra; ma nel giudizio, che di essa si dà, arduo è svestirsi (molto più arduo che nella critica etimologica) di un elemento « finito » o autopersonale: il gusto. L'etimologo risolve un suo problema, astraendo volentieri dal suo individuo particolare, mentre il critico letterario difficilmente si sottrae ai suoi sentimenti, all' impulso delle sue passioni, alla sua personalità determinata e particolare. Ecco: egli ora chiude il libro, appena letto, e ne contempla, dopo averla sintetizzata o realizzata in sè, la visione nella sua unità. Più la visione artistica è complessa, più sono le idee messe in movimento dalla lettura, più è vivo l'impeto della commozione, e più egli si sente trascinato a mettere l'opera in relazione col suo modo di sentire e a non sopprimere, insomma, se stesso come singolo se stesso nel giudizio che egli ne esprime. La freddezza dell'etimologo e del grammatico scompare. Subentra, nel critico letterario, un calor nuovo, una fiamma, un fuoco che tutto lo invade, perchè l'artista, identificandosi con lui, lo ha fatto vibrare tutto nei precordi, e gli ha infuso, quasi, una nuova vita. Ma gli ha anche rimossi nell'animo dei problemi che riguardano la sua personalità già costituita e i suoi interessi d'uomo di fronte agli altri uomini. Nel giudizio dell'etimologo, che prescinde volentieri dal suo gusto singolo, tutti possono consentire, o, se il giudizio è errato, tutti non si riconoscono, con voce generale; in quello del critico letterario quale stiamo ritraendo alcuni consentono, altri no, alcuni si riconoscono del tutto, altri si riconoscono in maggiore o minor parte. Altri, infine, non si riconoscono affatto. Raramente il consenso è pieno, universale. Ma il critico, del quale andiamo parlando, non è il vero critico idealista, sibbene il critico empirico, che ha le sue passioni, le sue preferenze, i suoi gusti e ha i suoi problemi risolti alla sua maniera e altri problemi che egli risolve, volta

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per volta, in modo diverso da quello del suo autore. Egli coordina tutto alla sua propria esperienza, egli si pone egoisticamente, determinato qual è, a centro di tutto. E questo critico empirico non può fare della critica « vera », perchè ha realizzato una conoscenza che non è « vera », cioè non è universale o pura. È una conoscenza, in cui sono elementi caduchi: le preferenze, i gusti, i problemi pei quali egli si contrappone agli altri uomini. Egli è che il critico empirico è contrapposto agli altri individui, come alle cose materiali. Questo critico, che non sente di farsi irreale considerandosi distinto da tutti, opposto a tutti, e non isforzandosi di stringersi in un'armonia durevole e profonda con gli altri individui, è arbitrario, e il suo arbitrio lo manifesta nello sprezzo del consenso comune e nella illusione o vanità di instaurare il proprio gusto a legge suprema. Ora, il gusto è più sentimento che ragione, e può essere, anzi, causa di perturbamento nel giudizio.

Ma l'individuo ha un rapporto immanente con la realtà universale, ed è precisamente questo rapporto che lo universalizza. La realtà universale non assorbe e annichila l'individuo empirico ma lo unifica. Bisogna tenersi fermi in questo concetto, se vogliamo evitare l'arbitrio, che viene da una conoscenza imperfetta, da una identificazione incompleta. Non v'è opera, che sia veramente grande, e non v'è nozione, che sia veramente nobile, la quale non trascenda l'individuo particolare, non investa o non procuri di investire la generalità, l'universalità. Ad es., se la « legge morale » non fosse universale, se applicassimo castighi e pene per fini personali e non già per punire gli uomini del male che hanno fatto a tutti (non solo al singolo), la morale non istarebbe a sommo dell'edificio della filosofia.

Il critico idealista deve perciò affissarsi nell' universale e la sua aspirazione deve protrarsi verso un giudizio non empirico, ma universale, al quale tanto più si avvicinerà quanto più profonda sia la sua conoscenza. Ed essendo universale, questo giudizio non mancherà di essere, nel senso esposto (§§ 3 e 12), anche individuale. Allora avremo il vero giudizio storico, nel quale tutti si riconosceranno e nel quale consentiranno tutti. La critica ha dunque due foci: una empirica, l'altra idealista. Ma se la prima foce non finisce con lo sboccare nella seconda, la, critica è imperfetta, è come un gradino sul quale poggia un altro gradino, su cui non si sale ancora o siamo saliti per ridiscenderne in balìa delle nostre passioni.

su cui

§ 21. L'arte come sintesi spirituale e liricità. Come un'espressione (una parola) ha una sua fisonomia esteriore ed interiore, che le è data dalla proposizione, di cui è parte indissolubile, o dal linguaggio, che è storia, così un'opera letteraria (o artistica) ha una sua

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