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dice Aristotele: Perturbatio vero est actio letifera, seu dolore plena, veluti cum neces, cruciatus, vulnera, caeteraque hujus generis palam fiunt. Questa terza parte non è propria della tragedia, come stimò Apsino retore, ed il Robertello nella sposizione di questo luogo; mạ conviene alla tragedia, ed all'epopeja, per giudizio d' Aristotele medesimo, il quale, eccettuatone l'apparato, e la musica, accomuna tutte l'altre parti della qualità fra la tragedia e l'epopeja: nè voglio ora affaticarmi in dichiarare, se da queste parole si possa raccogliere che le morti si possano fare in iscena contro il precetto d'Orazio:

Nec coram populo natos Medea trucidet: seguendo nondimeno l'autorità di Euripide nella tragedia così chiamata, e di Seneca nell'Ercole forsennato; o pur se ciò si debba intendere de' corpi morti portati nella scena, come avviene del corpo morto d'Ippolito nella tragedia di questo nome fatta prima da Euripide, e poi da Seneca; o nelle Supplichevoli d'Euripide, ed in altre tragedie dei Greci, o de' Latini; o pure se ciò si debba intendere delle voci, che s'odono in palco, benchè sian dette in cose, lę quali fanno manifesta la morte, come son quelle di Clitennestra; perchè il quistionare di ciò s'appartiene alla tragedia solamente, ma nell' epopeja sono sempre narrate; questa parte nondimeno ricerca grandissima efficacia, ed energia, che metta quasi le cose avanti gli occhi : e quanto io in ciò mi sia affaticato di rassomigliarmi a' principi della Greca, e della Latina poesia, il benigno lettore con discreto giudizio per se medesimo potrà estimarlo, ed ią medesimo nel terzo addurrò alcuni luoghi fatti a quella imitazione, oltre a questi, che ora io propongo da considerare.

Due sono i luoghi eccessivamente trattati da questi due grandissimi poeti; l'uno da Omero nella morte di Ettore, l'altro da Virgilio in quella di Mezenzio, e di Lauso, perchè quella di Turno a tutti non piace egualmente; anzi la sua fuga, come quella di Ettore, da tutti non è lodata. Io non perchè biasimi la fuga di Ettore, o di Turno, o perchè la stimi senza difesa, ma perchè è più lodevole la morte intrepida, e senza paura, ho descritti Argante e

Solimano intrepidi fino alla morte. Nella morte di Argante imito quella di Ettore; nell'uccisione di Solimano, e di Amuralto, l'uccisione di Mezenzio, e di Lauso. Nella prima Argante nella fuga non somiglia ad Ettore, perocchè egli non vuol fuggire; ma questo timore del fuggire si descrive nella persona di un suo fratello giovane e delicato, al quale era più conveniente, e questi così è ucciso al fonte di Siloè, come il principe dei Trojani a quello di Xanto, o di Scamandro: ma nella difesa della patria e della sua fede Argante è similissimo ad Ettore, e per questo meritevole delle lagrime, e de'lamenti della moglie, e della madre, e dell'altre donne Saracine, le quali essendo innocenti, benchè Infedeli, possono muover gran compassione; e laddove la persona di Argante prima non era miserabile, ora è divenuto miserabilissimo, perchè di soldato straniero e mercenario, è divenuto figliuolo di Re, e di Regina Cristiana, e principe naturale di quella città, e difensore del padre, amatore della moglie, e costante nella difesa', e nella fede; e però quella pietà, che si niega alla legge, si può concedere alla natura, ed all'umanità. I lamenti di Lugeria, di Funebrina, e di Erminia sono assai somiglianti a quelli di Andromeda, di Ecuba, e di Elena. Ma qui mi si fa quasi all'incontra l'opposizione fatta da Dion Grisostomo ad Omero, e nell'orazione sua chiamata il Melancoma; le parole son queste: Defunctum vero memoria honorate, non lacrymis; non enim decet hic honor generosos a generosis ; neque Homerum laudaverim, quod dicit irrigatam esse arenam, et arma Achivorum lacrymis; sed ille quidem poeticam secutus est voluptatem, lamentationum excellentiam ostentans: vos vero ferte id, quod accidit, moderate. Nella quale opinione Dion Grisostomo peravventura non merita d'esser ripreso, come filosofo; nondimeno io altre volte ho difesa la parte contraria, come più umana, e più accomodata alla vita civile, e rifiutata l'altra, come troppo rigida, e severa; ed ora sinilmente dirò alcuna cosa della commiserazione, e della purgazione degli affetti, come di materia a questo giudizio appartenente; ma prima considero quelle parole di Dione: Ille quidem poeticam secutus est voluptatem, lamentationum excellentiam

stentans, colle quali non ci niega che al poeta, in quanto poeta, non si convenga il cercar questo diletto, e molti de' moderni l'hanno ricercato co' lamenti amorosi, o fatti in morte degli amanti, fra'quali posso essere annoverato io medesimo; giudico nondimeno che si debba schivare in sì fatte querele il soverchio, e tutto quello, che di languido e d'effeminato si può vituperare nell'amorose passioni; però in questa parte, con giudizio assai maturo, ho voluto moderar me stesso, ed il mio poema, concedendo a' moderni poeti la vanissima laude di un'affettata piacevolezza; ma ne' lamenti fatti nella morte degli amici, e dei figliuoli, e nell'esequie, non ho voluto lasciare addietro l'imitazione de' Greci, e de' Latini; con gli uni e con gli altri lamenti nondimeno ho voluto purgare gli affetti, seguendo piuttosto il giudizio di Aristotele, e degli altri Peripatetici, che quel di Platone, e degli Accademici, e degli Stoici, e degli Epicurei, i quali, comechè nell'altre cose siano molto discordi, paiono concordarsi in quel, che appartiene alla vacuità degli affetti, ed alla tranquillità degli animi.

Platone, dal quale come da ampissimo fonte son derivate molte Sette di filosofanti, ne' dialoghi delle Leggi vuole che dal legislatore, e da'magistrati sia imposto modo al movimento, ed alla perturbazione degli animi, e biasima i poeti, i quali, oltre a tutti gli altri, sogliono cominoverlo, e perturbarlo; e particolarmente nel settimo dialogo commette a' servi, ed a'forestieri l'imitazione delle cose ridicole, e da scherzo, concedendo a' magistrati, ed ai cittadini la tragedia, ma la tragedia d'ottima imitazione; però si legge: Deformium vero corporum et cogitationum motus, qui ad risum, et comoediam verbis, cantu, saltatione omnibus hujusmodi imitationibus spectant, considerare, et cognoscere necesse est ; nam seria sine ridiculis, et omnino contraria sine contrarjis cognoscere quidem inpossibile est, si quis prudens est futurus, fieri autem ambo minime possunt, si quo pacto virtutis participes evasuri sumus; sed haec hujus gratia cognoscenda sunt, ne propter ignorantiam ridiculum aliquid agatur, aut dicatur, cum minime oporteat: servi igitur, et peregrini pretio conducti talia imitentur, studium vero ipsis

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nullum adhibeatur. Nec adeo liber sit civis, seu vir, seu mulier, qui discere ista cernatur, sed nova semper in his appareat imitatio, atque ita ad risum spectantes ludi, qui comoediae vocabulo appellantur, ratione, et lege dispositi sint. Tragoediae vero poctae, qui res, ut ajunt, serias narrant, si nos sic interrogent : licet ne ò amici, in regiónem, civitatemque vestram nobis venire, poemataque nostra ad vos perferre, an aliter vobis de re tragica visum est? quid ad haec divinis viris recte nos respondebimus? Nam mihi quidem ita videtur. Nos vero, o viri optimi, trageodiae quam pulcherrimae et optimae, quoad fieri potest, sumus poetae,nempe universa Respu blica nostra pulcherrimae optimaeque vitae imitatio est, quam rem nos certe tragoediam verissimam arbitramur. Poetae ergo vos estis, poetae quoque ejusdem poematis ipsi sumus, et quasi aemuli ad opus pulcherrimum tragoediae contendimus, quod sola lex vera, ut speramus, potest perficere. E benchè queste cose appartengano piuttosto all'imitazione de' migliori, che alla purgazione degli animi, nondimeno sono materie assai congiunte; ma nell'istesso dialogo, poco prima, avea proibito le poesie, e i concenti flebili, da' quali gli animi quasi infettati, sono oltremodo commossi alle lagrime, e perturbati, abrogando la prima legge, che gli permetteva. Le parole son queste: In nostris vero civitatibus ferme omnibus, ut breviter dicam, hoc ita fit; nam posteaquam magistratus quispiam sacra fecit,non unus, sed multi solent chori convenire, qui cum prope aras steterint, miserandis vocibus sacram rem temerant:. quippe verbis, numerisque, et concentibus flebilibus audientium inficiunt animos, et qui turbam ad lacrymas vehementius commovet, victoriae praemia refert; hanc nos legem nonne abrogabimus? et si querulam orationem audiri a civibus quandoque oporteat, non faustis divinarum solemnitatum diebus, sed nefastis potius convenire dicemus. Seguirono gli Accademici l'opinione di Platone, e Proclo particolarmente, nel libro delle quistioni poetiche biasima i poeti in queste due cose, nell'imitazione de' peggiori, e nella perturbazione degli affetti: Est quidem Tonina imitatio jucundissima, sed

non ést raidevtinɛí id est non pertinet ad recte instituen dam hominum vitam. E l'istesso Proclo nella quarta quistione dice: Is erit igitur, secundum typos a Platone descriptos, laudatissimus poeta, qui sublata omni varietate imitationis,erit tantum Deorum et bonorum virorum laudator. E poco appresso soggiunse: Imitatio sit bonorum virorum, et si quando contigerit imitari hominem agitatum perturbationibus, aut improbum, ut saltem imitatio non sit desperatae improbitatis, quae corrigi nequeat. Le quali parole, se come dal Robertello sono riferite nel comento suo della Poetica, così fossero state ben considerate dagli Accademici della Crusca, e dagli altri miei oppositori, o almeno obtrettatori, non avrebbono fatte tante opposizioni alla persona di Tancredi, colla quale s'imita la perturbazione degli amanti, che ritratti dalla disperazione, ricorrono alla penitenza; de'quali anco si può dire, parlando come Cristiano teologo:

Ma più gloria è nel regno degli eletti

D'un penitente core, e più si stima,

Che di novantanove altri perfetti.

E, com'io dissi, esprimendosi il costume del penitente, i esprime l'ottimo costume negli uomini, de'quali è proprio il peccare. Ma ritorniamo a' filosofi.

Gli Stoici dicono, e Cicerone con gli Stoici nella terza Tusculana: Peripatetici familiares nostri, quibus nihil est uberius, nihil eruditius, nihil gravius, mediocritates vel perturbationum, vel morborum animi mihi satis non probant, omne enim malum, etiam mediocre, magnum est. E nella quinta Tusculana : Quocirca mollis et enervata putanda est Peripateticorum ratio, et oratio, qui perturbari animos necesse esse dicunt, sed adhibent modum quemdam, quem ultra progredi non oportet. E certo, se tutti gli affetti sono per natura maligni, e somiglianti nell'animo a' morbi del corpo, ed alle malattie, non è ragionevole che in modo alcuno si possa lodare la mediocrità del male. Gli Epicurei ancora, seguendo Democrito, non meno nelle cose morali, che nelle naturali, lodarono la tranquillità dell'animo. Ma Aristotele fornito d'altissimo ingegno, e di gravissimo giudizio dotato, conobbe che

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