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false visioni, perchè le menzogne alcune volte s'adornano più della verità. Ma il mio Goffredo entra nella città divina per una porta di zaffiro, come si legge in quei versi: Non lunge all' aurea porta, ond' esce il Sole,

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porta di zaffiro in Oriente,

Che sol per grazia avanti aprir si suole,
Che si disserri l'uscio al di nascente.
Di questa escono i sogni, onde egli vuole
Le tenebre illustrar d' umana mente.
Ed ora quel che al pio Signor discende,
L'ali dorate in verso lui distende.

E la figura a me par convenevole, oltre a ciascun altra, così per la trasparenza del zaffiro, e per la similitudine, che egli ha con gli occhi, come perchè le figure, che ci dimostrano la verità delle cose celesti e divine, deono esser lucidissime, e splendidissime molto. E perchè due sono le porte da' Platonici figurate nel cielo, come si legge nel sogno di Scipione, interpetrato da Macrobio, e nella sposizione di Filopono sovra le meteore, l'una nel Cancro, per la quale discendono l'anime nel corpo, l'altra nel Capricorno, per cui l'anime son credute ritornare al cielo; entra Goffredo nella celeste Gerusalemme per la porta del Capricorno, e si trova nel circolo latteo. Fin qui ho filosofato poetando, ad emulazione de' poeti Gentili, ma non senza grande autorità de'Cristiani teologi; perchè S. Tommaso, principe degli Scolastici, negli opuscoli dice che l'anime son dette ritornare al cielo per lo circolo latteo, cioè per lo candore della giustizia, e dell'innocenza. Ora insieme co' sacri teologi esponiamo la visione di Goffredo. Sant'Agostino nel libro della città di Dio ci descrive duo amori, l'uno terreno, l'altro celeste; dal terreno vuol che sia fatta la terrena Gerusalemme, dal celeste la celeste; e da questo principio comincia la visione di Goffredo, come si legge in quelle stanze del vigesimo :

Nulla mai vision nel sonno offerse
Immagini del ver lucenti e belle,

Più di questa, ch'a lui dormendo aperse
'I secreti del cielo, e delle stelle;

Anzi i divini, e quasi in speglio, ei scerse

Misteri d' opre antiche e di novelle,
Einsieme gli apparì la terra, e'l cielo,
Come in teatro, a cui si squarci il velo.
Vide repente uscir due vaghi Amori,

E quinci e quindi far contrario il volo,
El'un girar con incostanti errori
La terra, e non partir dall' umil suolo;
E l'altro circondar gli eterni cori
Del ciel sublime, e gir di polo in polo,
Con ali più del Sol lucenti e preste ;

Fabbro immortal d'alta città celeste.

In questa guisa Goffredo vede fatta la terrena città dal terreno amore, e gli appariscono in visione gli adulterj, e le fornicazioni, e l'idolatrie di David, di Salomone, e degli altri Re di Gerusalemme, e d'Israelle, ne' quali fu diviso il regno, e la cattività del popolo Ebreo, e la dispersione oltre all' Eufrate, e 'l regno trasportato dalla Tribù di Giudea negli Idumei, e la vendetta di Cristo, e molte altre cose maravigliose gli appariscono, quasi predizioni del tempo futuro. Poi discende dal cielo la celeste Gerusalemme, come è figurata nell' Apocalisse, di figura quadra, o per li quattro Vangeli, o per le quattro virtù morali, o debba esser in questo mondo, com'è opinione d'alcuni, o solamente nell'altra vita, come è la comune sentenza; e risguardando Goffredo il maraviglioso aspetto della celeste e gloriosa Gerusalemme, se gli fanno avanti gli occhi duo modi e quasi strade di salirvi; l'una è la scala di Giacob, la cui esposizione si trova in molti scrittori, e particolarmente in San Gregorio, sovra il quarto capo di Giob, e questa significa la contemplazione. L'altro modo è quel della fune di splendori visibili, e d'invisibili, che figura il divino Areopagita a simiglianza della fune Omerica, colla qual Giove, Dio de' Gentili, può tirare a sè tutte le cose, ed egli da niuna è tirato; e con questa è significato l'amore delle cose divine, che ci rapisce a sè; perocchè Iddio, come insegna Aristotele nella metafisica, muove come amato, e desiderato, ed il ratto altro non è che eccesso d'amore. Goffredo non ascende per la scala della contemplazione, ma è rapito colla fune dell'amore, perchè era

uomo impiegato nell'azione, e non occupato nella contema plazione; e perchè l'amore fu di carità, vede l'anima del padre, e di quelli, c' han militato per Cristo, e i Pontefici, e gl'Imperatori Cristiani più gloriosi, e rimira la celeste Gesusalemme, non più in forma quadra, com'è conveniente alle virtù de'costumi, ma in rotonda figura, com'è descritta dal divino Areopagita nella celeste Gerarchia ; perciocchè questa figura è più conveniente alla contemplazione, non essendo il contemplare altro, che un ritorno dell' intelletto in se stesso, ed in Dio, nel qual ritorno egli fa un giro; laddove, pensando alle cose, che sono inferio ri, e fuori di lui, si muove con moto obbliquo, o retto. Qui Goffredo vede molte cose, non solo appartenenti al futuro regno, ma alla futura beatitudine, e fatto certo della sua gloriosa vittoria, e della predestinazione con maravigliosa ed insolita grazia, ode l'armonia degli Angeli, che lodano Dio con que'nomi, che son dichiarati dall'Areopagita nel libro De Divinis nominibus. Al fine, chinando gli occhi alla terra, vede questo piccolissimo globo, e si conferma nella costantissima opinione d'aspirare al regno celeste, ed alla gloria immortale :

E disdegno, che pur all' ombre, ai fumi
La nostra folle umanità s'affisse,
Servo imperio sperando, e muta fama,

Ne miri il ciel, ch'a sè n'alletta e chiama. Questo è il fine dell'allegorie, col quale, disvelandosi nell'eterna luce del cielo, l'ombre delle figure, deono tutte cessare, e illustrarsi perpetuamente. Ora sovra alle cose dette possiamo imporre, quasi suggello sovra suggello, l'autorità di Agostino, e di Gregorio Santo in alcuni luoghi, dove particolarmente trattano dell'allegoria. San Gregorio nel secondo e nel terzo capo della sua epistola espositaria delle morali sovra Giob, vuol che quelle parole di Giob Elegit suspendium anima mea, et mortem ossa mea, debbano esser allegoricamente interpetrate, perchè non è credibile che l'uomo pazientissimo, il qual meritava da Dio eterni premi della sua pazienza, avesse deliberato di finir la vita così miseramente, perchè alcuna volta le parole non debbono essere intese secondo la lettera, an

zi le parole della lettera s'impugnano apertamente; e si milmente quelle altre Pereat dies, in qua natus sum, et nox, in дись dictum est, conceptus est homo. E quell' altre, che soggiunge appresso: Occupet eum caligo, et involvatur amaritudine.

Laonde, per suo giudizio, le parole, che si distruggono nella superficie, deono essere intese profondamente: e in questa guisa sovra i fondamenti dell'istoria conviene fabbricar coll'allegoria una fabbrica intellettuale, o della mente, che vogliam dirla; la qual, quasi sentenza del gravissimo padre, può servir non solamente per esposizione ai teologi, ma per aminaestramento a'poeti, ed a quelli particolarmente, che non vanamente vogliono poetare: imperocchè, s'è lecito a' sacri teologi nelle sacre lettere seguir altro senso, che il letterale, ciò più agevolmente a' poeti dovrebbe esser conceduto; e Sant' Agostino, nel libro della vera Religione prima avea detto: Divina Providentia parabolis et similitudinibus nobiscum quodammodo lusit. Distinguamus igitur, quam fidem debeamus historiae, et quam fidem debeamus intelligentiae. Laonde al poeta ancora, il quale è quasi divino nell'imitazione; si dee concedere ch'egli scherzi colle favole, e colle similitudini, lasciando parte all'istoria, e parte all'allegoria:

NEL QUAĻE SI TRÀTTA DELLA FAVOLA, E DELL'ALTRE PARTI DELLA QUALITA', E DELLA QUANTITA'.

Siccome

Diccome nel giudizio dell' Areopago quegli oratori erano in maggior pregio, i quali non parlavano per commover l'animo de' giudici coll'ira, o, colla misericordia, o col timore, o coll' animosità, o con gli altri affetti, che senza il seme ancora delle nostre parole sogliono germogliare nella natura umana, per se medesima di loro féconda ed abbondevol molto; ma per dimostrar la verità non apparente, della quale, come di cosa occulta ed incerta si dubitava, così nelle liti, e nelle quistioni, che sono fatte in materia di lettere, e di studj, la vittoria è proposta non a colui, che vince di malevolenza, o di maledicenza, o šupera con lo strepito delle parole soverchie, oppugnando le più vere sentenze, ed alle migliori ragioni quasi ricalcitrando, ma a quel solamente, che può meglio ritrovare il vero, e ritrovato, meglio provarlo con gli argomenti, e colle parole illustrarlo: e se in questa contesa mi è lecito di giudicar dell'opere mie, e di me stesso, ne sarà giudice quella parte di me, che non è perturbata dagli affetti, nè impedita dalle passioni, ed all'intelletto mio proprio, quasi a nuovo Areopagita, sarà conceduto il dar questa sentenza, almeno fino a tanto, che egli medesimo dell'altrui giudizio si contenti, o altri non ricusi sinceramente di giudicarne.

La favola, ch'è prima fra le parti della qualità, e forma, e quasi anima del poema, sarà il principal soggetto, e quasi la materia di questo secondo libro, nel quale non fo comparazione fra la favola dell'Iliade, o dell' Eneide, e quella del mio poema, nè la paragono con alcun'altra o delle nuove, o delle antiche, o Greche, o Latine, o Barbare, o pur Toscane, se non per accidente, e quasi altro ricercando, ma per sè, a se medesima è paragonata; e si considerano le mutazioni, e le cagioni dell' averla in que

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