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fetto di pestifero veleno, o non tenesse occupati gli animi in vana lezione. Non dee dunque il poeta proporsi per fine il piacere, come peravventura credeva Eratostene ripreso da Strabone, che difende Omero dall'imputazione, ma il giovamento: perchè la poesia, come estima il medesimo Autore seguendo l'opionione degli antichi, è una prima filosofia, la qual sin dalla tenera età ci ammaestra ne' costumi, e nelle ragioni della vita: ma quei, che seguirono poi, portarono opinione, che solo il poeta fosse sapiente; alineno si dee credere che non ogni piacere sia il fine della poesia, ma quel solamente, il quale è congiunto coll'onestà; perchè siccome il diletto, il quale nasce dal leggere le azioni brutte e disoneste, è indignissimo del buon poeta, così il piacere d'imparar molte cose congiunto coll'onestà è suo proprio.

Laonde peravventura questo fine non è così da sprezzare come parve al Fracastoro nel suo Dialogo della poesia, anzi paragonandolo all'utile, è più nobil fine quel del piacere. Perciocchè egli è desiderato per se stesso, e l'altre cose per lui sono desiderate. Laonde in ciò è tanto simile alla felicità, la quale è il fine dell'uomo civile, che niuna cosa si può trovar più somigliante; oltre a ciò è amico della virtù, perchè egli fa magnifica la natura degli uomini, come si legge in Ateneo; onde coloro, che amano il piacere, e magnanimi e splendidi sogliono divenire; ma l'utile non si ricerca per se stesso, ma per altro; per questa cagione è men nobil fine del piacere, ed ha minor somiglianza con quello, che è l'ultimo fine.

Se il poeta dunque in quanto poeta ha questo fine, non errerà lontano da quel segno, al quale egli dee dirizzare tutti i suoi pensieri, come arciero le saette; ma in quanto è uomo civile, e parte della città, o almeno in quanto la sua arte è subordinata a quella, che è regina dell'altre, si propone il giovamento, il quale è onesto piuttosto, che utile. De'due fini dunque, i quali si propone il poeta l'uno è proprio dell'arte sua, l'altro dell'arte superiore : ma riguardando in quel, che è suo proprio, dee guardarsi di non traboccare nel contrario, perchè gli onesti piaceri sono contrarj a' disonesti. Laonde non meritano lode al

cuna coloro, che hanno descritti gli abbracciamenti amorosi in quella guisa, che l'Ariosto descrisse quel di Ruggiero con Alcina, o di Ricciardetto con Fiordispina: e peravventura il Trissino ancora avrebbe potuto tacere molte cose, quando ci pone quasi innanzi agli occhi l'amoroso diletto, che prese l'Imperator Giustiniano della moglie; ma egli volle imitare Omero, il quale finge che Giunone e Giove in cima del monte Ida fossero coperti da una nuvola; invenzione leggiadramente trasportata dal Tasso nell'Amadigi, quand'egli descrive l'abbracciamento di Mirinda e di Alidoro, quasi volendoci accennare, che l'altre cose deono essere ricoperte sotto le tenebre del silen-. zio, oltre tutte l'altre. Ma Virgilio negli amori d'Enea con Didone fu modestissimo, e accenna con brevi parole quel che seguisse dopo la pioggia mandata da Giunone: Speluncam Dido, Dux et Trojanus eamdem Deveniunt....

È dunque, come abbiamo detto, la poesia imitazione del le azioni umane, a fine di giovare dilettando: e il poeta uno imitator sì fatto, il quale coll'arte sua potrebbe dilettare altrimenti, come hanno dilettato molti senza giovamento; ma non facendolo, è buon poeta, e peravventura è in ciò simile all'oratore, il quale si considera, come parve ad Aristotele, non solamente dalla scienza, ma dalla volontà, a differenza del dialettico, che si stima non per l'animo, ma per la facoltà. E quindi avviene che alcuna volta nelle definizioni non si definisce la cosa ignuda, ma la cosa ben disposta, e perfetta, cone dice il medesimo Aristotele nella Topica; nel qual genere di definizione è quella dell'oratore; perciocchè l'oratore è colui, che può conoscere tuttociò, che è degno di fede in qualunque cosa, e non ne tralascia alcuna; è buono oratore senza fallo. Dalle quali parole peravventura fù mosso prima Strabone a dire che la virtù del poeta sia congiunta con quella dell'uomo; e che non possa esser buon poeta chi non è uomo da bene e poi Quintiliano a definir l'oratore uomo da bene, ed ammaestrato nel par¬ lare; non pensando alle parole d'Aristotale, nelle quali

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non lo chiama uomo da bene, ma buon oratore. Ma non so se questa definizione di Quintiliano meriti d'esser ripresa dal Cavalcante; perciocchè l' oratore ben disposto, e perfetto non poteva peravventura essere altrimenti definito, quantunque la bontà non sia parte del suo artificio, ma perfezione della natura, e dell'abito: ma s'ella è pur sottoposta a qualche riprensione, a niuna altra è più soggetta che a quella datale da Alessandro Afrodiseo, il quale dice che nelle definizioni sì fatte, non si definisce il tutto, ma la parte; e forse non volle Quintiliano che la definizione dell'oratore convenisse a tutti gli oratori, ma al perfetto solamente. Così ancora nella definizione del poeta, chi dirà che il poeta sia uomo da bene, e buono imitatore delle azioni, e de'costumi degli uomini a fine del giovar col diletto, non darà peravventura definizione, la quale convenga a tutti i poeti: definirà nondimeno l'ottimo, ed eccellentissimo poeta; dunque se il poeta è imitatore delle azioni; e de' costumi umani, la poesia sarà imitazione dell'istesse cose; e s'egli è buono imitatore, la poesia sarà una imitazione si fatta.

Ma alcuni hanno voluto che il poeta non riguardi tanto alla bontà, quanto alle bellezze delle cose, fra'quali è il Navagerio, appresso il Fracastoro, laddove prova che il fine del poeta sia di riguardare nell'idea del Bello, quasi volendo contradire all' opinione, che mostrò Aristotele d'aver ne' libri morali, ne'quali dice che l'idea non giova cosa alcuna nell'operazione; ma qualunque fosse il giudizio d' Aristotele in quel luogo, dichiarato dal Greco espositore, a me non può dispiacere in alcun modo che il poeta rimiri nell' idea della bellezza: ma se più sono l'idee nelle quali suol dirizzar gli occhi l'oratore, come è piaciuto ad Ermogene, non so perchè il poeta debba considerare solamente quella della bellezza, e non l'altre sei similmente: ma peravventura parve al Navagerio che nella forma della bellezza fossero comprese tutte le altre, o che il Bello fosse in tutte, perciocchè nella chiarezza, nella grandezza, nella velocità, nell' affetto, nella gravità, e nella verità è il Bello: e se non m'inganno il Navagerio desiderava

che la chiarezza non fosse chiara solamente, ma chiara, e bella similmente, e così tutte le altre forme. Ma perchè questa parte appartiene particolarmente all' elocuzione, sarà da me considerata, quando io discorrerò dell'artificio del parlare.

Ora non mi pare che debba essere disprezzata l'opinione di Massimo Tirio, il quale volle che la filosofia, e la poesia fossero una cosa doppia di nome, ma di semplice sostanza, come è la luce per rispetto del Sole; e però definisce la poesia una filosofia antica di tempo, di suono numerosa, d'argomenti favolosa: ma la filosofia è, come a lui pare, una poesia giovane d'età, e più sciolta di numeri, e nelle ragioni più aperta. Ma io estimo che il modo di considerare le cose faccia l'una dall'altra differente; perciocchè la poesia le considera in quanto belle, e la filosofia in quanto buone, come accenna il medesimo Autore in un altro luogo, dicendo ch' Omero ebbe da far due cose, l'una appartenente alla filosofia, l'altra alla poesia, ed in quella ebbe riguardo alla virtù, in questa all'effigie della favola.

È dunque la poesia investigatrice, e quasi vagheggiatrice della bellezza, e in due modi cerca di mostrarla, e di porcela d'avanti agli occhi; l'una è la narrazione, l'altra la rappresentazione; e l'uno, e l'altro è contenuto sotto la imitazione, come sotto suo genere, ma alcuna volta si denomina da una particolar maniera d'imitare. Coloro adunque, i quali hanno definito la poesia narrazione d'azione umana memorevole, e possibile ad avvenire, non hanno data definizione, che convenga a tutte le specie della poesia, ma al poema epico solamente, o eroico, che vogliam dirlo; ed hanno esclusa la tragedia, e la commedia, se pure in questo nome di narrazione non è alcuna doppiezza di significato, la qual potea da loro esser meglio distinta, e dichiarata coll'autorità d'Aristotele medesimo, come io feci alcuna volta, e poi gli altri han fatto più perfettamente. Diremo adunque che il narrare sia proprio del poema epico; perchè con questo nome sono chiamati coloro, che scrivono le cose fatte dagli eroi, per testimonio di Cicerone, e d' Eustazio, commentatore d' Omero: un' altra differenza ancora oltre il modo, è tra l'epopeja, e la tragedia, e queDiscorsi T. II.

sta nasce dalla diversità delle cose, colle quali imita, o dagl'istrumenti; perchè la tragedia, oltre il verso, adopera ner purgar gli animi il ritmo, e l'armonia: in due condizioni dunque sono differenti, nelle cose colle quali s'imita, e nel modo dell'imitare, in una concordi nelle cose imitate, perchè la tragedia ancora, come dice Aristotele ne'problemi, sirnula le azioni degli eroi: ma dalla commedia il poema eroico in tutto è differente, perchè è diverso ancora nelle cose, e nelle persone imitate.

Ma lasciamo la tragedia, e la commedia da parte, ed una specie di poesia narrativa, la quale in comparazione della commedia, è come l'Iliade paragonata alla tragedia, perchè in lei s' imitano le cose brutte, come fece Omero nel Margite, ad imitazione del quale fu peravventura da'nostri poeti formato il Margut; perchè di queste, e dell' altre specie non è mia principale intenzione di ragionare. Io dico che il poema eroico è una imitazione d'azione illustre, grande, e perfetta, fatta narrando con altissimo verso, a fine di giovar dilettando, cioè a fine che il diletto sia cagione ch'altri leggendo più volentieri, non escluda il giovamento. Ma il giovar dilettando è peravventura di tutte le poesie, perchè giova dilettando la tragedia, e giova dilettando la commedia, ma il fine di ciascuna dovrebbe esser proprio, perchè siccome altro fine ha l'arte de'freni, altro quella del far l'alabarde, tutto che l'una, e l'altra sia subordinata all'arte della guerra, e dirizzata a quel fine, ch'ella si propone, così altro fine dovrebbe aver la tragedia, altro la commedia, altro la epopeja, o altra operazione; perchè la forma di ciascuna cosa si distingue per la propria operazione: ma l'operazione della tragedia è di purgar gli animi col terrore, e colla compassione, e quella della commedia di muovere riso delle cose brutte, come dichiara il Maggio in quel suo libro de' Ridicoli, che egli compose separatamente: e da questa operazione della commedia nasce il giovamento, perchè noi ridendoci della bruttezza, che veggiamo negli altri, ci vergogniamo di far cose, che siano brutte egualmente. Dee dunque ancora l'epopeja aver il suo proprio diletto colla sua propria operazione; e questa peravventura è il muover maraviglia,

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