duce alla speculazione delle cose interiori, il quarto è quello delle superiori. E coll' uno, e coll'altro si possono $cusare gli errori, che sono fatti dal poeta nell'imitazione: ma se la difesa è con qualche difetto del primio senso, e congiunta con difetto nel decoro, e con qualche bruttezza e sconvenevolezza nelle cose imitate, non è buona, nè lodevole difesa. Però Aristotele non la numerò fra l'altre; e se l'allegoria fosse perfezione accidentale nel poema, non sarebbe ragionevole che potesse scusare i vizj dell' arte, che sono viaj per sè. L'enigma ancora non fu rifiutato da' poeti, come si legge in Sofocle, di quello, che la Sfinge propose ad Edippo: e Teodette nella medesima trageper relazione d'Ateneo ci descrive la notte, e la giornata con questo enigma: dia Germanae geminae, gignit quarum altera semper Alteram, et inde parens fit filia nata vicissim . Ma non era questo luogo di trattar dell'enigına, o dell'allegoria, se non considerandoli come figure di parlare; però soverchiamente, e quasi a caso n'ho si lungamente discorso, dovendo ciò fare in altro luogo più opportuno; seguirò dunque il primo proponimento. Magnifica similmente è quella figura, che da' Latini è detta Reticenza, perchè ella suol lasciar sospizioni di cose maggiori di quelle, che son dette, benchè alcuna volta non apporti tanta magnificenza, come è quella nell'Inferno, quando scende l'Angelo per aprir le porte, e Virgilio aspetta il suo ve nire: Attento si fermò, com'uom, ch'ascolta, Che l'occhio no'l potea menar a lunga, Lo cominciar con l'altro, che poi venne, L'esempio ancora di questa figura è ne’Trionfi del Fe trarca in quel luogo: Ma non si ruppe almeno ogni vel, quando Sola i tuoi detti, te presente, accolsi. Dir più non osa il nostro amor cantando. Ma gravissima, oltre tutte l'altre, è quella di Virgilio nell' Eneide, nella quale Nettuno irato ritiene la collera, e le parole insieme: Quos ego.... sed motos praestat componere fluctus. Ma insomma l'epifonema, così la chiamano i Greci, par che avanzi tutte l'altre, e somiglia le pompe de'ricchi, nelle quali è sempre qualche cosa, la quale è soverchia. Laonde questa figura si può divider in due parti, l'una delle quali serva all'intelligenza, l'altra all' ornamento. Serve all'intelligenza quel verso, e 1 mezzo che segue: Di se nascendo a Roma non fè grazia, A Giudea sì: e sono gli altri per ornamento. Tanto sovra ogni stato Umiltate esaltar sempre gli piacque! Della medesima figura la prima parte è in que' versi: Si specchia, e 'l Sol, ch' altrove par non trova. Che mortal guardo in lei non s' assicura; Par ch'amore, e dolcezza, e grazia piova. i primi: Poco vedete, è parvi veder molto, Ch'in cor venale amor cercate, o fede; Qual più gente possiede Colui è più da' suoi nemici avvolto. Gli altri abbondano nella ricchezza dello stile: O diluvio raccolto Di che deserti strani Per inondar i nostri dolci campi! Può parer questa figura simile all' entimema. cioè al sillogismo imperfetto, ma sono differenti; perchè l'entime:na s'usa per provare, e questo per adornare; laonde piuttosto si pone in suo luogo la sentenza, la qual sia coll' esclamazione; e benchè non sia questa figura, nondimeno occupa la sede come quella: O nostra vita, ch'è sì bella in vista, Com' perde agevolmente in un mattino che dopo Quel ch' in molti anni a gran pena s' acquista! Anzi, se crediamo a Teone Sofista, la sentenza, la narrazione d'alcuna cosa insegni, e adorni parimente, è -sentenza, ed insieme epifonema. Ma non è minor cagione di grandezza, e d'ornamento a mio giudizio la prosopopea, nella quale si danno persona, e voce e parole alle cose inanimate, come il Petrarca in que' versi a Fiorenza : L'aspetto sacro della terra vostra Mi fa del mal passato tragger guai, E la via di salire al ciel mi mostra. come fece il Dell' arbor, che nè Sol cura, nè gelo. E'l salir quasi per gradi è figura, che da' Latini è detta Gradatio, e da' Greci nλíμag, non si convien menɔ al magnifico, che al grave dicitore; l'esempio l' abbiamo in Dante: Onde la vision crescer conviene, Crescer l'ardor, che di quella s'accende, Ma questa è peravventura mescolata colla repetizione, o colla replica, che vogliamo dirla. Semplice è quell'altra: Noi siamo usciti fuore Del maggior corpo al ciel, ch'è pura luce, Amor di vero ben pien di letizia, Letizia, che trascen·le ogni dolore. Dice della metafora similmente molte cose Demetrio Falereo, e seguendo il giudizio d'Aristotele, loda più quella, che pone le cose in atto, come abbiamo già con cluso; e questa a mio giudizio particolarmente conviene al poeta, perciocchè egli è imitatore, e gli convengono ancora le similitudini, e le comparazioni assai più che all'oratore, il quale schiva le troppo lunghe, come son quelle di Dante: Con fracasso d'un suon pien di spavento ... Che fier la selva senza alcun rattento: Efa fuggir le fere, e li pastori: E quelle del Petrarca nella battaglia tra Madonna Laura ed Amore: Non fa sì grande, e sì terribil suono Etna qualor da Encelado è più scossa, Scilla, e Cariddi quando irate sono. Il Boccaccio vide, quel ch'era conveniente, come in quella della Teseide: Nè sarà tal, s' aggiunto ancor qui fosse Quel che Lipari fece, o Mongibello, O Strongilo, o Vulcan, quando più scosse. Tonando forte, non fu quanto quello. E molte altre somiglianti se ne leggono in questi tre poeti Toscani: ma quelle più dell'altre, si convengono al magnifico dicitore, nelle quali non si trova solamente similitudine, ma l'ornamento e l'accrescimento. Oltre le forme assegnate dal Falereo a questa forma magnifica del dire, ve ne sono peravventura alcune altre egualmente da lei ricercate, fra le quali è la prima la conversione, come quella: Rettor del cielo io chieggio, Che la pietà, che ti condusse in terra, Di che lievi cagion, che crudel guerra Dipoi l'esclamazione: O mondo, o pensier vani O mia forte ventura a che m'adduci! Massimamente s'ella è fatta con qualche sdegno come in que' versi: Ahi nuova gente, oltra misura, altera, Irreverente a tanta, ed a tal Madre. Si può annoverar con queste il pervertimento dell'ordine, quando si dice innanzi quel, che dovrebbe esser detto dopo, perchè al magnifico dicitore non si conviene una esquisita diligenza. Questa usò il Petrarca in que' versi : Di là, dove Amor l'arco tira ed empie. Ed in quell'altro: Amor con tal diletto m'unge, e punge. E quando si pone per lo tutto la parte, figura, che dai Greci e da' Latini, fu detta Sinedoche, come quella: Umida gli occhi, e l'una, e l'altra gota: benchè alcuni vogliano che sia piuttosto Greca costruzione. E la parentesi, o interposizione, che vogliamo chiamarla, come quella : A qualunque animale alberga in terra, Se non se alquanti n'hanno in odio il Sole, E quella, che è da'Grammatici detta endiadissis in quei versi : Dove vanno a gran pena uomini, ed arme. E la figura detta Zeugma, la qual si fa quando il verbo, o il nome discorda nella voce da quello, a cui si rende, ma concorda nel significato, di cui si ritrovano alcuni esempj in Virgilio : Pars in frusta secant. E l'altro. Sic manus ob patriam pugnando vulnera passi. E il Boccaccio nella Teseide fece questa figura nel numead imitazione del primo luogo: E 'n guisa tal la turba sì piangente E Dante nell'Inferno fece l'altra nel genere solo: |