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e in carattere corsivo i componimenti trascritti dal Petrarca : e in questo stesso carattere fece stampare le parole autografe scritte su rasura anche in quelli non autografi. In tal modo gli studiosi possono, a prima vista, riconoscere il contributo diretto del Petrarca nella trascrizione. Ha poi adottato nella stampa la stessa disposizione che i versi hanno nel codice: e vi furon trascritte con lettera maiuscola le lettere che, o per la loro grandezza maggiore o per la loro forma, sembravano rivelare nello scrittore l'intenzione di usare la maiuscola. Delle espunzioni, delle aggiunte, delle rasure è rimasta nella riproduzione sicura e lucida traccia o nel testo o nelle note.

In quanto alla punteggiatura, la cui importanza somma ebbe già a rilevare un grande commentatore del Petrarca, il Leopardi, quando asseriva che «< spesse volte una virgola ben messa dà luce a tutto un << periodo », i diversi segni, e nella forma nella quale si trovano nell'originale, vennero conservati nella presente edizione: «<e tutta la cura << si pose », si afferma nella particolareggiata prefazione, « affinchè nes« suno sfuggisse, sebbene, a cagione della loro sottigliezza e dello stato << del codice, molti sieno oggi svaniti e a stento visibili senza l'aiuto « della lente». A questo riguardo, è importante la scoperta fatta dal Modigliani nella biblioteca Vittorio Emanuele dell'edizione quattrocentina di un trattatello intorno all'Ars punctandi, che le bibliografie degli incunaboli attribuiscono allo stesso Petrarca. Se la attribuzione sia giusta, non so: in ogni modo gli è certo che tra i segni indicati nel trattato e quelli del codice Vat. 3195 c'è una rispondenza perfetta; rispondenza, che si riscontra anche rispetto ad altri due codici autografi del Petrarca, il Vat. lat. 3358, contenente il Bucolicum Carmen, il Vat. lat. 3359, contenente il De sui ipsius et multorum ignorantia. Il trattatello, con la sua sommaria illustrazione del valore di ciascun segno, ci dà agio di interpretare con sicurezza il sistema d'interpunzione adottato dal Poeta, e ci apre la via ad intuire com'egli voleva che i suoi versi fossero letti. L'intima famigliarità, che per lungo tempo il Modigliani ha avuto col codice, ha fatto si che questo si rivelasse quasi interamente a lui, anche nelle sue più minute particolarità. Le varie mani, che dopo quelle del Petrarca e del copista lasciaron su di esso traccia di sè, sono indicate nelle sobrie note dell'edizione come vi son rilevati e lo scopo e la portata dell'opera loro. Le ipotesi avanzate sono caute, prudenti sempre e appaion frutto di mature e sottili meditazioni. Soltanto circa un asserto, esposto nella prefazione, noi dobbiamo fare le nostre riserve. C'è nel testo una serie di lettere e di parole, già svanite e poi ritoccate o riscritte più tardi. Or bene di esse il Modigliani crede di poter identificare l'autore nella persona di Pietro Bembo. Egli promette di fornire in altro luogo più ampia dimostrazione di questo suo convin

cimento. E noi attendiamo desiderosi, ch'ei mantenga la promessa. Ma a priori ci par ardua la certa identificazione di una mano dal semplice ritocco di qualche lettera sbiadita dal tempo: e se altri argomenti tratti da altra origine che non sia il codice non verranno a raffermar la sua congettura, temiamo che questa resterà congettura, espressione cioè di una impressione puramente personale.

La storia adunque, lunga e complicata istoria, di questo prezioso manoscritto si svolge pagina per pagina, parola per parola, segno per segno, innanzi a noi nella bella edizione, che Ettore Modigliani ci presenta. E codesta storia è interessante non solo pel filologo, pel letterato, ma anche per lo psicologo. C'è una parte dello spirito del Petrarca nella materiale apparenza di questi fogli, a cui egli ha affidato i suoi canti giovenili d'amore. Essi ci dicono innanzi tutto cosa divenisser per lui questi canti negli anni della vecchiaia: non solo le care rimembranze di giorni lieti lontani, ma forse il titolo più superbo della sua carriera letteraria, a cui bisognava convergere - ei n'aveva coscienza – tutte le sue cure, tutte le sue abilità di artista provetto. Ma principalmente per il lento lavorio della lima, che ci divien quasi palpabile, essi ci sono documento vivace in questo campo dell'arte di quella ansiosa, insaziabile aspirazione al meglio, che è stata una delle caratteristiche più recise dell'anima sua: aspirazione, che gli faceva esclamare ad ogni passo angosciosamente: «Sentio inexpletum quoddam in praecordiis << meis semper », che è stata la spina penosa della sua attività, ma che ha formato la sua forza vera d'uomo e di poeta.

CARLO SEGRÉ.

Francesco Schupfer, Precarie e livelli nei documenti e nelle leggi dell'alto medio evo. Torino, 1905.

È un lavoro di grandissima importanza non soltanto per la copia dei documenti onde si trae profitto, si anche per la vigoria del pensiero che lo anima. Un giovane scrittore, il Pivano, in un suo recente volume di molto pregio (I contratti agrari in Italia nell'alto medio evo, Torino, 1904) tentò dimostrare con sottile insistenza questa tesi: che i tre massimi contratti agrari del medio evo, la precaria, il livello e l'enfiteusi, si distinguono fra loro per un carattere esclusivamente esteriore. La precaria ed il livello sarebbero due contratti formali, col qual vocabolo intendesi nella scienza designare contratti il cui tipo è dato dalla sola forma adatta ad esprimere contenuti diversi, come era nella

stipulatio del diritto romano; l'enfiteusi invece sarebbe un contratto sostanziale e alla lor volta precaria e livello differirebbero in una sola piccolissima particolarità di forma: per costituire la precaria sono necessari due documenti di tenore diverso, l'uno in forma di petizione, l'altro in forma di concessione, mentre a costituire il livello occorrono due documenti dello stesso tenore o di concessione o di petizione. Già da un primo giudizio logico o, per meglio dire, metodologico, a chi scorreva il libro del Pivano doveva apparir chiaro che l'autore si era lasciato sedurre da alcuni preconcetti empirico-formalisti, dai quali avrebbe potuto salvarlo l'obbedienza ad un rigoroso concetto scientifico, secondo noi, troppo spesso calunniato. Questo concetto scientifico supremo insegna che gli istituti giuridici sono sempre, nella loro veste esteriore, il simbolo perfetto e sommamente eloquente di realtà della vita, nella quale sorgono. Non vi è effetto senza causa, non vi è forma senza sostanza. Si ha un bel gridar contro al «< preconcetto », all' « unilateralità », al « materialismo» con le relative immancabili « strettoie ». L'esperienza insegna che le vere strettoie sono quelle di un formalismo strappato a forza dalla vita ed entro il quale non si deve racchiudere la storia del diritto, che deve essere il vero simbolo e quasi la sintesi della storia generale. Per difetto dunque di metodo, direi, realmente scientifico, il Pivano ci sembra che sia caduto in errore ed abbia voluto racchiudere un grave problema entro confini troppo angusti.

Ma il prof. Schupfer, con vastità di vedute e con poderosa dottrina, riconduce alla realtà delle cose ed inconfutabilmente dimostra che la precaria, il livello e l'enfiteusi sono veri e propri contratti sostanziali, rispondenti ciascuno ad un fine suo proprio ben nitido e distinto. La precaria, che è legata, nell'origine, al praecarium classico, contiene in sè l'idea caratteristica del godimento dei beni solo per favore del concedente, il qual concetto a sua volta è tutela della proprietà ecclesiastica, al cui miglioramento il contratto di precaria deve provvedere, pur salvaguardando il diritto del concedente e ponendo in prima linea questa necessità: indi tutta la configurazione giuridica. L'enfiteusi, che conferisce all'enfiteuta un diritto reale, per cui quegli può godere pienamente della cosa come se fosse proprietario, è per contro tutta intesa a proteggere, nell' interesse economico del miglioramento dei fondi, il diritto del lavoratore, in subordinazione s'intende al fine del miglioramento stesso. E perciò si atteggia nel medio evo assai differentemente che nel periodo romano, fa obbligo all'enfiteuta di migliorare la terra, gli concede in proprietà le migliorazioni, gli dà il diritto della derelictio, ossia la facoltà dell' abbandono ogni volta che non trovi rimunerativa la coltivazione del

fondo. Il livello, che ha parentela con la precaria, se ne distingue non per misere e indipendenti particolarità di forma, ma sopratutto per la natura del contratto, perchè il rapporto derivante dal livello è strettamente contrattuale da ambo i lati e dà luogo non a un possesso precario più o meno ampio, ma a un vero e proprio diritto reale. È simile all'enfiteusi, da cui trasse origine, ma per certi riguardi se ne discosta ed ha vita propria. I tre contratti insomma, dimostra lo Schupfer, sono animati ciascuno da un proprio spirito giuridico, che si manifesta in ogni punto della loro disciplina. La diversità giuridica a sua volta risponde ad un diverso fine economico: talora prevale l'interesse del proprietario, tal'altra l'interesse del lavoratore. Cosi abbiamo una spiegazione razionale, che ci lascia pienamente soddisfatti; e però è ben giusto che questo lavoro sia studiato e tenuto a modello, come esempio di buon metodo negli studi di storia e di diritto che non debbono essere abbandonati dalla virtù animatrice del pensiero coordinatore.

GINO ARIAS.

Bernard Monod, Le moine Guibert et son temps (10531124) avec une préface de M. ÉMILE GEBHART. Paris, Hachette, 1905, pp. XXVIII, 342.

Ora è un anno che a Hyères Bernardo Monod moriva nel fiore della più promettente giovinezza. A soli venticinque anni egli aveva destato le più liete speranze: conseguito il diploma di archivista e paleografo presso l'École des Chartes, con una tesi su Pasquale II e Filippo I, entrò nell'École des Hautes Études alla quale, riprendendo il primo lavoro, presentò un assai lodato Essai sur les rapports de Pascal II avec Philippe I et Louis IV. Fu poi nominato membro dell'Ecole de Rome; ma, ohime!, la terribile malattia che distrusse la sua giovinezza, gl'impedi di venire a Roma a lavorare nella solenne quiete del palazzo Farnese. Ed il volume su Guiberto che egli veniva segretamente preparando per offrirlo un giorno, con gradita sorpresa, a suo padre, viene ora dal padre pubblicato e deposto come una funebre offerta sulla sua tomba. Quanta tristezza!

Questo volume rende a noi ancora più sensibile la sua perdita. Con che affetto, con quanta giovanile vivacità piena di buon senso e di criterio l'autore ha tratteggiato la figura di Guibert de Nogent! Fra gli scrittori medioevali Guiberto è senza dubbio uno dei più im

portanti per la sua originalità, per la franchezza e l'ardire delle sue opinioni, e soprattutto perchè nei suoi scritti egli ha messo tanta parte di se stesso, dei suoi sentimenti e della sua vita che nessuno forse fra gli scrittori del medioevo è, per così dire, più soggettivo di lui. L'opera De vita sua sive monodiarum libri III è la prima memoria autobiografica dell'età moderna. Era quindi bene che l'originale figura di questo monaco medioevale fosse tratta dall'oblio.

Riassumere il bel lavoro del Monod equivarebbe a sciuparlo. Le pagine nelle quali egli ci narra i primi anni della vita di Guiberto trascorsi in un castello presso Clermont-en-Beauvaisis con la madre pia e piena di scrupoli, con un precettore ignorante e manesco lasciano una profonda impressione di simpatia e di tristezza. Entrato nel monastero di Saint-Germer-de Fly, egli si dette con ardore agli studi sacri e profani, e nella biblioteca monastica egli trascorreva ore deliziose leggendo insieme con i Padri della Chiesa i prosatori ed i poeti dell' età classica. Fu per lui una vera rivelazione !

Quando gli storici del rinascimento si soffermano a descrivere l'impressione profonda che sugli eruditi del Quattrocento faceva la lettura delle opere che ad essi primi svelavano un mondo d'ignorata bellezza, probabilmente non sanno che, già alcuni secoli innanzi, il monaco di Saint-Germer, nella solitudine della sua cella, si abbandonava con lo spirito pieno di curiosità alla lettura dei prosatori e dei poeti latini fino al punto di avere quasi in dispregio la Sacra Scrittura e di proporsi di rivaleggiare, componendo carmi, con Ovidio e Virgilio. Proprio nel tempo che il senso della vita e gl' irrequieti desideri si svegliavano nel giovane organismo di Guiberto, Amarillide e Galatea riempivano la sua fantasia e turbavano i suoi sogni. Era una via pericolosa dalla quale si ritrasse a tempo per opera principalmente di Anselmo che fu poi il grande arcivescovo di Cantorbery, allora semplice priore della badia di Bec. Anselmo lo accolse sotto la sua protezione, notò il suo spirito vivace e desideroso di apprendere, la sua sensibilità ardente, e si propose di regolare e di avviare al bene lo sviluppo rigoglioso di quella giovinezza esuberante. Sotto l' influenza dell' austero creatore della filosofia scolastica, Guiberto abbandonò i suoi amori per la letteratura pagana. Intanto la fama delle sue virtù e della sua dottrina andò di giorno in giorno crescendo; e fu eletto abate del monastero di Nogent-les-Vierges-sous-Coucy. L'alto onore non tolse a Guiberto la serena e studiosa tranquillità di Saint-Germer-de Fly; ma nello stesso tempo l'obbligò a prendere una parte attiva a tutti gli affari della diocesi di Laon. Cosi fu incaricato di sostenere presso Pasquale II il famoso Gaudry eletto alla sede episcopale di Laon. Gaudry era certamente indegno di questa

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