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che gli ambasciatori del Bentivoglio in via verso il pontefice dovettero impetrare da lui un salvacondotto per andar sicuri a inchinarlo in Cesena. In Cesena il pontefice parlò chiaro agli ambasciatori, lui non riconoscere capitoli che solo la necessità e non la voglia avea fatto fermare a' suoi antecessori e raffermare a lui; e mandò un commissario che recasse l'ultima sua volontà al reggimento di Bologna, e il capitolato che questi ne riportò in risposta stracciò. Bologna intanto e il Bentivoglio erano stretti d'ogni parte dai loro antichi alleati che l'audacia e la politica del pontefice avea rivolti in nemici: le genti dell' Estense, del Baglione, dei Fiorentini tenevano la campagna: lo Chaumont, vicerè francese, era mosso da Milano con 600 lancie e 3000 fanti, e, pur affidando il Bentivoglio che non lo assalirebbe, avanzava taglieggiando e predando fino a Castelfranco: il marchese di Mantova, luogotenente generale pontificio era già a Budrio, e mandava al Bentivoglio scusandosi del dover movergli contro per la ubbidienza giurata, e ammonendolo che per la signoria non v'era più scampo, mettesse in salvo quel che meglio poteva. Pure i Bolognesi, aiutati di pochi fanti solo da Pisa e da Pistoia, approntavano la resistenza: Giovanni Bentivoglio il 27 ottobre in una rassegna delle milizie dava il bastone del comando ad Annibale suo figlio, giurando voler perdere anzi figli e vita egli, che non Bologna la libertà. Erano lustre. La notte tra il primo e il secondo di novembre, patteggiatosi per denari con lo Chaumont si riduceva con parte de' suoi figliuoli al campo francese, mentre Annibale ed Ermes riparavano a Ferrara: al medesimo tempo alcuni cittadini, che erano d'intesa, mandarono le chiavi della città al pontefice. Ma i francesi quella notte stessa piantarono le bombarde tra il ponte di Ravone e porta San Felice, e, la mattina mandato in vano a domandar le chiavi, incominciarono a bombardare la città. Il popolo si difese con virtù mirabile; e, tolto il governo ai Sedici che accennavano d' inchinare, occupato il palazzo, il governo e la città per sei giorni, non pure ributtò ogni assalto, ma ridusse i francesi da assediatori in assediati, inondò il loro campo, e gli affamò; e, solo per interposizione del pontefice, mandò loro la vettovaglia dopo che si furono ritirati oltre il ponte di Reno. Il pontefice in quel mezzo era in Imola; e, ivi intesosi col nuovo Senato di Bologna che gli inviò quattro de' suoi, entrava poi in Bologna l' 11 novembre, accompagnato da tutti i fuorusciti, e salutato da ogni ordine della città sovrano e liberatore. Egli tolse via alcune gabelle ed imposte per ingraziarsi al popolo, fece rifabbricare più massiccia che prima la for

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tezza di Galliera, e riformò lo stato, creando quel Senato di quaranta nobili a vita rinnovantesi a mano a mano per propria elezione che con alcune mostre e nomi di libertà rappresentò l'autonomia della città dinanzi ai Legati pontificii sino al 1796. Non a pena il pontefice era partito da Bologna (22 marzo 1506) i bentivoglieschi dentro la città, e un anno appresso, Ermes e Annibale, fuori, istigati dalla madre riparatasi in Busseto, preparavano novità. Quei di dentro furono tenuti a dovere con minaccie d' inauditi rigori: i due fratelli, che con 10 mila uomini fra tutto avevano già occupato il bolognese, furono battuti e respinti due volte, l'ultima a Casalecchio il 3 di maggio. Dopo la quale vittoria, Ercole Marescotti e Camillo Gozzadini, consenziente il legato, sommossero il popolo, il 13 maggio, a distruggere il palazzo dei Bentivoglio, del quale a' primi di giugno non rimanevano più che fumanti ruine. Non molti mesi di poi, la parte bentivogliesca rialzava la testa; e una congiura di nobili, se non ad altro, riuscì a cacciare i Marescotti e ad abbruciarne alla lor volta il palazzo (13 gennaio 1508). La Ginevra, moglie di Giovanni Bentivoglio, e cagione principale dei delitti e degli errori di lui, era morta d'un tratto in Busseto il 16 maggio del 1507, al leggere una lettera del marito che gli narrava la distruzione del palazzo, rimproverando lei d'ogni suo danno, e, come scomunicata, era stata sepolta fuori del sacrato. Giovanni morì in Milano il 13 febbraio 1508, senza aver nelle ore estreme i conforti nè d'alcun de' suoi molti figliuoli nè d' un parente nè d' un amico.

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Il socio effettivo prof. Gaetano Gaspari riprende la lettura delle sue Memorie di musicisti bolognesi del secolo XVI dal punto a cui le aveva lasciate nella tornata del 14 giugno 1874; e discorre della vita e delle opere di Camillo Cortellini, di Filippo Maria Perabovi e di Costantino Ferrabosco (Veggansi in questo volume).

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Il segretario legge una biografia di Domenico Paganelli, architetto ed ingegnere faentino, nuovamente compilata su docu

menti o reconditi o inediti dal socio effettivo don Gian Marcello Valgimigli bibliotecario di Faenza (Vedila in questo volume).

Dopo di che, il sig. conte Nerio Malvezzi, benchè non socio della Deputazione, ammesso dal presidente, e per di lui invito, legge, intorno a un carteggio da lui scoperto nella biblioteca della sua famiglia, un ragguaglio che, per la importanza delle notizie, si produce per intiero :

Poichè la regia Deputazione di storia patria ha benignamente accolto l'annunzio della scoperta di un carteggio, a cui non certo il mio merito, ma fortuna mi condusse, e che essa giudicò degno della considerazione dei dotti, riassumo nel modo più breve, e come lo consentono le mie scarsissime cognizioni storiche, le notizie che ho potuto raccogliere intorno alle lettere recentemente tornate in luce.

Nel mese di giugno dello scorso anno, nella biblioteca di mio padre conte Giovanni Malvezzi de' Medici, senatore del regno, trovai un fascicolo contenente sessantasei lettere dirette da celebri astronomi nel finire del sedicesimo, e sul principiare del diciasettesimo secolo, a Giovanni Antonio Magini padovano e professore nella Università di Bologna.

Non occorreranno molte parole a dimostrare l'importanza per la storia dell' astronomia delle lettere rinvenute, poichè a ciò bastano i nomi dei loro autori, Tycho Brahé, Kepler, Scheiner, Malcot, Van Roomen, più conosciuto sotto il nome di Adriano Romano, Cristoforo Clavio, Giovanni Lheureux, noto col nome di Macario, Francesco Stelluti, Muzio Oddi e molti altri illustri scienziati e matematici di quei tempi.

Incontrastabile è il pregio degli autografi, reso anche maggiore dalla buona condizione in cui si trovano. Legati insieme fortunatamente (poichè a ciò solo forse si deve la loro conservazione) formano un fascicolo di cento trenta fogli. Nella maggior parte le lettere sono scritte in latino, altre in italiano; ognuna di esse porta l'indirizzo e molte il sigillo dello scrivente, se non che pochi di tali sigilli sono intelligibili.

Due lettere sono in versi, a lode di Ticone e del Magini. Alcune lettere, e sono dello Stelluti, di Muzio Oddi e di altri, contengono figure geometriche, infine in parecchie leggonsi lunghi calcoli astrologici od astronomici.

Le lettere di Ticone, assai lunghe con interessanti particolari della sua vita privata e scientifica, non sono scritte di proprio pugno, solamente firmate da lui. Una di esse dev'essere tra le

ultime dettate dall' astronomo, poichè porta la data del 1601, anno in cui avvenne la morte di lui in Praga.

Le lettere di Kepler meritano molta attenzione in quanto chiariscono alcuni punti della sua vita famigliare. Esse furono scritte nel 1610, allorquando il sommo astronomo aveva terminati gli studi sopra il pianeta Marte, e stava lavorando col valido sussidio delle carte e degli istrumenti del celebre Ticone, alla compilazione delle tavole rodolfine, le quali comparvero poi nel 1627. Tali tavole, che furono lungamente le più esatte che si potessero adoperare, erano state in gran parte formate da Ticone, pure Kepler vi lavorò per ventisei anni, e col ricavato dalla pubblicazione di esse, alleviò la miseria della vedova e dei figli di Ticone, i quali altra sostanza non avevano che quelle tavole. Pare davvero che Kepler beneficando la famiglia di chi aveva a lui aperto un più vasto orizzonte di studi, presentisse la trista egual sorte della sua propria famiglia, a cui, come Ticone, non lasciava morendo che i fogli di qualche opera. Tale era la meschina condizione dei discendenti di quelli, che sono il decoro del genere

umano!

Tornando alle lettere kepleriane, noterò che, se non varranno ad accrescere la fama del loro autore, che già pervenne alla massima altezza, gioveranno al maggiore onore dell' astronomo padovano, e quindi della Università bolognese, in cui questi per ben ventinove anni lesse astronomia. Imperocchè Kepler chiese a lui molti consigli nella compilazione della sua opera sopra Marte, e sembra ancora la inviasse a Bologna « Obsecro propter nostra studia, scrive Kepler al Magini, ut eadem lima totum (opus) percurras, e finisce la lettera dicendo « vale, vir celeberrime, et perge censendo mihi prodesse ». Queste parole, pure considerando lo stile ampolloso del seicento, bastano a provare in quanta stima fosse dal sommo scienziato tenuto il nostro Magini. Si può parimenti confermare nel modo più sicuro ciò che scrisse il Weidler, nella sua Historia Astronomica, intorno all'invito fatto da Kepler al Magini di andare in Germania ad aiutarlo nella compilazione delle tavole rodolfine. Si potrà forse similmente dalle medesime lettere rilevare che Kepler avesse avuto in animo di far stampare qualche sua opera a Bologna, e certamente che viveva in grandissima penuria. Spesso egli insiste su le difficoltà della vita, che a lui tolgono, come esprimesi, la tranquilla serenità della mente. E ben si comprende come di essa non potesse godere, se, come egli scrive, fortemente pativa di fame!

È probabile che molti altri fatti vengano scoperti o confer

mati, i quali non troverebbero in questo troppo rapido e poco profondo cenno, luogo adatto, spettando alle acute e diligenti indagini di qualche erudito. Aggiungerò solo che presso le lettere kepleriane stanno le bozze delle risposte del Magini; fortunata combinazione che aiuterà a meglio chiarire le relazioni corse tra i due scienziati, tanto più che nell' opera di Hansch << Epistolae ad Kepplerum etc. Lipsiae 1718 », non si trova alcuna lettera dell' astronomo padovano.

Una lettera del dotto gesuita Scheiner datata da Ingolstadt nel 1613 tratta della famosa questione di priorità agitata tra lui e Galileo su la scoperta delle macchie solari, e potrebbe recare qualche nuovo lume sulla controversia. Da tale lettera si rileva che il Magini prese le parti di Scheiner, tanto che questi gliene rende infinite grazie.

Le lettere di Cristoforo Clavio sono due, e scritte in italiano. Come è noto questo dotto gesuita fu dal sommo pontefice Gregorio XIII incaricato degli studi per la riforma del calendario; studi che gli procurarono lunghe questioni con Scaligero ed altri protestanti. Ora una delle lettere che ho trovato, tratta di materie astrologiche, e nella seconda non v' hanno che amare parole contro la imperizia dello Scaligero, che viene detto dal Clavio arrogantissimo nelle sue falsità. Tali invettive riescono più, direi quasi, divertenti per chi sappia che lo Scaligero definiva il Clavio: asinus, qui praeter Euclidem nihil scit. Ciò serve a far conoscere la urbanità delle dispute scientifiche di quei tempi.

Interessantissima è una lettera di Muzio Oddi, di quel valente geometra, che fu capo delle artiglierie del duca d'Urbino, e che poi per sospetto fu chiuso da questi in una segreta del castello di Pesaro, dove compilò i suoi trattati matematici, servendosi d'inchiostro composto di carbone pesto e di nero di fumo stemperato nell'acqua, e di una canna che gli teneva luogo di penna. Tramutata dopo lunghi anni la prigionia in esiglio, l' Oddi andò a Milano nel 1609, dove ottenne una cattedra di matematiche. È appunto da Milano, e poco dopo il suo arrivo, che Muzio Oddi scrive al Magini, inviandogli un problema geometrico, e comincia la lettera: Giunsi finalmente a Milano, luogo del mio confino, dove con la grazia d'Iddio pare che l'aria mi conferisca, e tuttavia mi pare di ripigliare forze e migliorar la complessione. Vedrò se posso ordinare un poco le cose mie e buscar un poco di quiete d' attendere colle matematiche di passare questo esiglio con manco travaglio di quello che forse alcuni hanno creduto ». E certamente dopo nove anni di prigionia l' Oddi doveva provare

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