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Deh non gir sì veloce, ed abbi mente, Se qualche acuta spina in terra siede, Che con la punta sua dura, e pungente, Non fesse oltraggio al tuo tenero piede ; 0 serpe, od altro insidioso dente Che s'asconde fra l'erba, e non si vede. Va Ninfa, va con passo men gagliardo, Ed ancor io ti seguirò più tardo.

140

Cerca e discorri, a cui non porti amore, Chi fuggi, e chi sia quel, di cui paventi, lo non son montanar, non son pastore, Non guardo rozzo quì gregge, od armenti. Deh volgi un poco a me la fronte, e il core: Tien nel mio volto i tuoi begli occhi intenti: Non sai, stolta, non sai chi fuggi; e credi Forse molto veder, ma nulla vedi.

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Uom terrestre io non son, ma Dio del cielo,
Benchè in terra ho dominio illustre, e raro,
Che son signor di Tenedo, e di Delo,
E di Delfo, e di Patara, e di Claro:
Toglio alla notte il tenebroso velo,

E rendo al mondo il dì splendido, e chiaro
Quel ch'è, ciò che già fu, quanto poi fia,
Si può sapere per la scienza mia.

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Io son figliuol del sommo Giove, e sono Quel, che incordando i nervi al cavo legno, Rendo col canto mio sì dolce tuono, Che rompo, e placo ogni rancore e sdegno. E, s'ora avessi il plettro, e al suo bel suono Potessi 'l canto unir, forse che degno Faresti me, ch' io ti mirassi alquanto Vinta dal vario suon, dal dolce canto.

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Certa quidem nostra est, nostrá tamen una sagitta
Certior, in vacuo quae vulnera pectore fecit. 520
Inventum medicina meum est, opiferque per orbem
Dicor; et herbarum subjecta potentia nobis.
Hei mihi, quod nullis amor est medicabilis herbis:
Nec prosunt domino, quae prosunt omnibus, artes!
Plura locuturum timido Peneïa cursu
Fugit: cumque ipso verba imperfecta reliquit :
Tum quoque visa decens: nudabant corpora venti,
Obviaque adversas vibrabant flamina vestes;
Et levis impexos retro dabat aura capillos: 529
Auctaque forma fugá est: sed enim non sustinetultra
Perdere blanditias juvenis Deus: utque movebat
Ipse Amor, admisso sequitur vestigia passu.

519. Certa quidem nostra ec. Se peritum quidem esse sagittarium profitetur: sed cupidinem, a quo erat percussus, peritiorem esse ait.

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Non si trova ferir più fermo, e vero Dell'arco mio, nè più certa saetta, Anzi m' ha vinto un più sicuro arciero, Che da' begli occhi tuoi fere e saetta. Ho nella medicina il sommo impero, La virtù dell'erbe è a me soggetta: gran Ohimè, non vaglion erbe all' amor mio Nè quel, che giova altrui giova al suo Dio!

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Che cosa più, crudel, giovar mi puote,
Se 'l giusto priego mio non può fermarti?
Non l'amor mio, non le dolenti note,
Non mille, e mille mie lodate parti:
Ma, quanto più il mio duol l'aria percote,
Tanto più fuggi, e men posso arrestarti :
Ne giovar ponno alle mie piaghe acerbe,
Regni, fati, beltà, canto, arco,
ed erbe.

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Alfin l'innamorato Dio s'accorge,

Ch'ella non vuol, che 'l suo parlar conchiuda :
Tace, e la mira, e più bella la scorge,
Che 'l corso fa, ch'ella arrossisce, e suda,
Gonfia il vento le vesti, e manca e sorge,
E mostra or questa, or quella parte ignuda;
L'aura, che al corso suo contraria spira,
La chioma alzata in aria apre, e raggira.

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Visto, che ogn'or più vago il divo aspetto Cresce alla Ninfa, e ch' ascoltar non vuole, Non può soffrir l'acceso giovinetto Di gittar più lusinghe, e più parole; Lo cuoce in modo il foco, ch' ha nel petto, Che non par più che corra, ma che vole : E per l'ultimo suo maggior soccorso, Come gli mostra amor, ricorre al corso. Metamorfosi Vol. I.

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535

Ut canis in vacuo leporem cum Gallicus arvo
Vidit, et hic praedam pedibus petit, ille salutem ;
Alter inhaesuro similis jam jamque tenere
Sperat, et extento stringit vestigia rostro :
Alter in ambiguo est, an sit deprensus; et ipsis
Morsibus eripitur, tangentiaque ora relinquit.
Sic Deus, et virgo est: hic spe celer, illa timore.
Qui tamen insequitur, pennis adjutus Amoris 540
Ocior est, requiemque negat: tergoque fugaci
Imminet; et crinem sparsum cervicibus afflat.
Viribus absumptis expalluit illa; citaeque

Victa labore fugae, spectans Peneidas undas, 544
Fer, pater, inquit, opem; si flumina numen habetis.
Qua nimium placui, tellus, aut hisce, vel istam,
Quae facit ut laedar, mutando perde figuram.
Vix prece finita, torpor gravis alligat artus:
Mollia cinguntur tenui praecordia libro.

In frondem crines, in ramos brachia crescunt:

550

546. Quâ nimium placui, Tellus, ait, hisce. Aut hisce rectius multi ex antiquis. Quidam hos duos versus superiori praeponunt ; veterrimus Palatinus hunc non agnoscit: unus Gronovianus neutrum habet, et certe tollendi videntur; nisi legas ordine inverso:

Quac facis ut laedar, Tellus, aut hisce, vel istam
Quà nimium placui, mutando perde figuram.

Sed Ovidianos esse Heinsius non existimat.

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Tal, se talor la lepre al veltro innanzi
Si stende al corso in ben aperto campo,
Ch' ei corre ove correva ella pur dianzi,
Col piè l' un cerca preda, e l'altra scampo;
E, perchè l'avversario non l'avanzi,

Questa, e quel passa ogni dubbioso inciampo,
Già il can la piglia, e par che l'abbia in bocca,
Ella è in dubbio s'è presa, ei non la tocca.
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Così Febo, e la vergine fugace,

Fan: questo sprona Amor, quella timore;
Alfin, chi
segue tiranno e rapace

Forse ajutato dall' ali d'Amore,

Nel corso è più veloce, e pertinace :
Già il respirar, che dal corso è maggiore,
Soffia nel crin della Ninfa già stanca,
A cui la forza, e la prestezza manca.
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Mirando sbigottita il patrio fiume
Disse piangendo: o mio benigno padre,
S'è ver, che i fiumi abbian potere, e nume,
Toglimi tosto alle mani empie, e ladre :
Terra, che tutto produci, e cousume,
Terra, che a tutti sei benigna madre,
Questa, onde offesa son, bramata forma,
Inghiotti, o in altro
corpo la trasforma.
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Novo stupor,

Volea pur dir, ma di tacer la sforza
che tutto il corpo prende,
E fallo un corpo immobil senza forza,
Che non ode, non vede, e non intende;
La cinge intorno una novella scorza,
Che dal capo alle piante si distende.
Crescon le braccia in rami, e in verdi fronde
Si spargon l'agitate chiome bionde.

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