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THE NEW YORK PUBLIC LIBRARY

ASTOR, LENOX AND TILCEN FO PRATIONS

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11

Non molto lungi una gran selva antica Facea di spessi rami a se stessa ombra, Che la scure crudele ed inimica Mai non avea d' alcuna pianta sgombra: Quì dove il bosco più folto s'intrica, Una rustica grotta il centro ingombra, Rustico un umile arco ha nella fronte Rustica è dentro, ed ha nel mezzo un fonte.

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Quivi era ascoso un marzial serpente,
Di creste, e d'oro orribilmente adorno,
Ch'in tre partite avea distinto il dente,
E su la fronte un bellicoso corno:
Il suo collo elevato ed eminente
Ovunque vuol snoda, e raggira intorno;
E fa scherno col collo agile e leve
Al dorso suo più faticoso e greve.

Negli occhi un così orribil foco splende, Che l'uom non puote in lui fermar la vista: Di fuor la lingua triforcata rende,

E con sibilo orrendo il mondo attrista :
Quando di più color l'ali distende,
Prestezza, e forza al pigro corpo acquista :
Noce assai con la lunga ed agil coda,
La qual non men del collo aggira, e snoda.
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Non fa il piè nel ferir minore effetto
Che l' unghia ha curva, e lacera, e divide,
L'aer, che fuor la bocca esala infetto
L'erbe, e le piante, e gli animali uccide:
Or qual fia mai sì valoroso petto,
Ch' estinguer possa le membra omicide?
Ch'ogni parte ch'è in lui nocer si .ede,
La coda, il corno, il fiato, il dente, e 'l piede.

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Infausto tetigere gradu, demissaque in undas
Urna dedit sonitum; longo caput extulit antro
Caeruleus serpens, horrendaque sibila misit.
Effluxere urnae manibus, sanguisque relinquit
Corpus, et attonitos sub’tus tremor occupat artus,
Ille volubilibus squamosos nexibus orbes
Torquet, et immenso saltu sinuatur in arcus :
Ac media plus parte leves erectus in auras
Despicit omne nemus; tantoque est corpore, quanto,
Si totum spectes, geminas qui separat Arctos.
Nec mora: Phoenicas (sive illi tela parabant,
Sive fugam, sive ipse timor prohibebat utrumque)

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44. Tantoque est corpore. Tam magnus inquit erat ille serpens, quantus est is qui inter duas ursas in coelo spectatur. Est autem tantus ut fluvius esse videatur, ut Virg. scribit,

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Gli sfortunati Tiri che non sanno,
Che quivi il fier serpente ascoso stassi,
Lieti, e senza sospetto se ne vanno,
E pongon dentro gl'infelici passi;
Ma risonar la fonte appena fanno
Con l' urna, ch' a tuffar nell' onda dassi,
Che l' ali sibilando il Drago scuote,
E'l collo innalza, e stende più che puote.
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Come il romore ode la gente Tira,
E vede quel Dragon tanto innalzarsi,
Che minaccioso ed empio gli rimira,
E guarda a chi di lor debba avventarsi,
Dagli estremi del
corpo si ritira

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sangue al core, e lascia i membri sparsi D'un subito tremor, che tanto abbonda, Che cadon lor di mano i vasi, e l' onda.

17

Mentre tiene il timor ciascun sospeso
S'han da tentar la fuga, o pur la spada,
Fu dal Dragone un nella testa preso,
Per torgli a un tratto l'una e l'altra strada:
Cadere il lascia poi morto,
e disteso

Il mostro, onde ognun fugge, e più non bada :
Vede il Dragon quel, che tal fuga importa,
E corre ratto anch'ei fuor della porta.

Per

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Siccome un fiume, ch'esce dal suo letto

troppe pioggie rapido, ed errante, A ciò che l'impedisce dà di petto, E schianta, e rompe le più grosse piante: Tal quel Dragon, pien d'ira, e di dispetto, Seguendo quei, che gli han volte le piante, Per forza apre le macchie, e rompe, e passa, E chi ceder non vuol schiantato lassa.

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