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Quivi drizzò la Dea prudente e casta Il suo santo vestigio, e il santo piede; Giunta percote la porta con l'asta, E quella al primo picchio s' apre, e cede: E che vipera, ed aspide, e cerasta Mangia l'Invidia alla sua mensa, vede; E che la pascon carni di serpenti De' brutti vizj suoi degni alimenti. 288

Non si degna la Dea dentro alla porta Porre il suo altero e venerabil passo, Anzi tal vista, e l'odio che la porta, Le fa l'occhio tener curvato e basso; L'Invidia, che la Dea dell' arme ha scorta Mormora, e move il piede afflitto e lasso Lascia mezzo mangiate idre, e lacerti, E va con passi inutili ed inerti.

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Come meglio la Dea superba mira
D'armi, e di ricche vesti adorna, e bella,
Dal profondo del cor geme, e sospira;
Vedendo a se sì povera gonnella:
Le ciglia irsute mai dritte non gira.
Se guarda in questa parte, mira in quella;
Pallido il volto, il corpo ha macilente,
E mal disposto, e rugginoso il dente.

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È tutto fele amaro il core, e 'l
core, e'l petto:
La lingua è infusa d'un venen che uccide:
Ciò, che l'esce di bocca, è tutto infetto:
Avvelena col fiato, e mai non ride
Se non talor, che prende in gran diletto,
S'un per troppo dolor languisce, e stride;
L'occhio non dorme mai, ma sempre geme:
Tanto il gioir altrui l' affligge, e preme!

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Sed videt ingratos, intabescitque videndo,
Successus hominum: carpitque et carpitur una,
Suppliciumque suum est. Quamvis tamen oderat illam,
Talibus adfata est breviter Tritonia dictis:
Infice tabe tua natarum Cecropis unam;

Sic opus est. Aglauros ea est. Haud plura locuta 785
Fugit; et impressa tellurem reppulit hasta.
Illa Deam obliquo fugientem lumine cernens;
Murmura parva dedit,
dedit, successorumque Minervae
Indoluit: baculumque capit, quod spinea totum
Vincula cingebant: adopertaque nubibus atris, 790
Quacunque ingreditur, florentia proterit arva,
Exuritque herbas, et summa papavera carpit*:
Afflatuque suo populos, urbesque, domosque
Polluit: et tandem Tritonida conspicit arcem,
Ingeniis, opibusque, et festá pace
Vixque tenet lacrymas; quia nil lacrymabile cernit.
Sed postquam thalamos intravit Cecrope natae;

virentem:

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783. Tritonia. Vel a Tolé, quod lingua Cretum caput significat; eo quod ex capite Jovis nata sit. Vel à palude Tritone Libyae, juxta quam nata est, ubi Stagni quieta Vultus vidit aqua posuitque in margine plantas, Et se dilecta Tritonida dixit ab unda, Lucan. lib. 9. 352.

794. Tritonida. Athenas artibus, studiis, et pace florentes.

797. Sed postquam, etc. Supra narravit, regiam habuisse tres thalamos, ebore et testudine cultos; quorum dexter Pandrosi, laevus Aglauri, medius Herses fuerit. Relictis itaque aliis, sinistrum ingreditur Invidia, effectum datura quod sibi Pallas mandaverat.

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Allor si strugge, si consuma, e pena, Che felice qualcun viver comprende: E questo è il suo supplizio, e la sua pena, Che se non noce a lui, se stessa offende; Sempre cerca por mal, sempre avvelena Qualche emol suo, finchè infelice il rende. Tien, per non la veder, la fronte bassa Minerva, e tosto la risolve, e lassa.

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La temeraria figlia, Aglauro detta,
Del Re d'Atene a ritrovar n' andrai,
E l'alma sua della tua peste infetta
Nel modo più pestifero, che sai.
Percote l'asta in terra, e parte in fretta,
E lascia lei ne' suoi continui guai,
Che mormora, s' affligge, e si tormenta
D'aver a far la Dea di ciò contenta.

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Prende una verga in man di spini avvolta, E vola al danno altri pronta e veloce, La circonda una nebbia oscura e folta, Che fiori, ed erbe, e piante abbrucia, e coce. Ovunque il viso suo nojoso volta, Avvelena, fa nausea, infetta, e noce; Corrompe le città, gli uomini attosca E fa, ch' un se medesmo non conosca.

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Struggendosi l' Invidia affretta il piede, Giugne ad Atene, e sta mirando alquanto Quel popol, ch' in ricchezza ogni altro eccede, E tutto il trova in gioco, in festa, e in canto: Tiene appena le lagrime, che vede, Che cosa ivi non è degna di pianto. Ver la casa del Re la strada piglia, Per farlo poco lieto della figlia.

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Jussa facit: pectusque manu ferrugine tincta
Tangit: et hamatis praecordia sentibus implet.
Inspiratque nocens virus: piceumque per ossa
Dissipat, et medio spargit pulmone venenum.
Neve mali spatium caussae per latius errent;
Germanam aute oculos, fortunatumque sororis
Conjugium, pulcrâque Deum sub imagine ponit:
Cunctaque magna facit; quibus irritata, dolore 805
Cecropis occulto mordetur: et anxia nocte,
Anxia luce gemit: lentȧque miserrima tabe
Liquitur, ut glacies incerto saucia sole:
Felicisque bonis non secius uritur Herses;
Quam cum spinosis ignis supponitur herbis,
Quae neque

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dant flammas, lenique tepore cremantur.

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Con le man rugginose più che puote, Batte per far venir pallide, e smorte D'Aglauro le vermiglie, e bianche gote, Che così belle, e così grate ha scorte: Con la spinosa poi verga percote

Quattro, e sei volte lei, più che può forte: E tal virtute han la sua verga, e palma, Che non nocendo al corpo affliggon l'alma. 296

Mentre l'afflitta Invidia e dispietata
A più poter la misera flagella,

Fa, che nel suo pensier contempla, e guata
L'immagin di quel Dio leggiadra e bella:
Le pone innanzi agli occhi fortunata
Sopra d'ogni altra donna la sorella,
Che sfogherà l'amoroso desio
Con così vago, e così bello Dio.

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Poichè di fiato putrido, e veneno
Ha l'infelice Aglauro infetta, e guasta
L'Invidia, e vede aver servito appieno
La bellicosa Dea prudente e casta :
Ritorna all' antro suo di serpi pieno,
A pascer nova vipera, e cerasta;
E lascia Aglauro al tutto invidiosa,
Ch' Erse a sì bello Dio si faccia sposa.
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Giorno e notte s'affligge, e si tormenta,
E ch' abbia tanto ben, le scoppia il core:
Ma dice pian, perch' altri non la senta,
E sfoga sotto voce il suo dolore:

Come una pira che non sia ben spenta, Ch'arde di dentro e non appar di fuore, Esala, e sfoga in qualche parte, e fuma,, E dentro a poco a poco si consuma.

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