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287 Quivi drizzò la Dea prudente e casta Il suo santo vestigio, e il santo piede; Giunta percote la porta con l'asta , E quella al primo picchio s'apre, E che vipera, ed aspide , e cerasta Mangia ' Invidia alla sua mensa , vede; E che la
pascon carvi di serpenti De' brutti vizj suoi degni alimenti.
288 Non si degna la Dea dentro alla porta Porre il suo altero e venerabil passo, Anzi tal vista , e l'odio che la porta , Le fa l'occhio tener curvato e basso; L'Invidia , che la Dea dell'arme ha scorta Mormora, e move il piede afflitto e lasso, Lascia mezzo mangiate idre, e lacerti , E va con passi inutili ed inerti.
289 Come meglio la Dea superba mira D'armi, e di ricche vesti adorna , e bella , Dal profondo del cor geme, e sospira; Vedendo a se sì povera gonnella: Le ciglia irsute mai dritte non gira. Se guarda in questa parte, mira in quella; Pallido il volto, il corpo ha macilente , E mal disposto, e rugginoso il dente.
290 È tutto fele amaro il core , e'l petto: La lingua è infusa d'un venen che uccide : Ciò, che l'esce di bocca, è tutto infetto : Avvelena col fiato, e mai non ride, Se non talor, che prende in gran diletto, S’un per troppo dolor languisce, e stride; L'occhio non dorme mai, ma sempre geme: Tanto il gioir altrui l'affligge, e preme!
Sed videt ingratos , intabescitque videndo, 780 Successus hominum: carpitque et carpitur una , Suppliciumque suum est. Quamvis tamen oderat illam, Talibus adfata est breviter Tritonia dictis: Infice tabe tudi natarum Cecropis unam; Sic
opus est. Aglauros ea est. Haud plura locuta 785 Fugit; et impressd tellurem reppulit hastá. Illa Deam obliquo fugientem lumine cernens; Murmura parva dedit , successorumque Minervae Indoluit: baculumque capit, quod spinea totum Vincula cingebant: adopertaque nubibus atris, 790 Qucicunque ingreditur , florentia proterit arva, Èxuritque herbas , et summa papavera carpit* : Afflatuque suo populos, urbesque , domosque Polluit: et tandem Tritonida conspicit arcem, Ingeniis, opibusque, et festa pace virentem: 795 Vixque tenet lacrymas; quia nil lacrymabile cernit. Sed postquam thalamos intravit Cecrope natae;
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291 Allor si strugge , si consuma, e pena, Che felice qualcun viver comprende : E questo è il suo supplizio, e la sua pena, Che se non noce a lui, se stessa offende; Sempre cerca por mal , sempre avvelena Qualche emol suo , finchè infelice il rende. Tien , per non la veder, la fronte bassa Minerva, e tosto la risolve, e lassa.
292 La temeraria figlia, Aglauro detta, Del Re d'Atene a ritrovar n'andrai, E l'alma sua della tua peste infetta Nel modo più pestifero, che sai. Percote l'asta in terra, e parte in fretta, E lascia lei ne' suoi continui guai , Che mormora, s'affligge, e si tormenta D'aver a far la Dea di ciò contenta.
293 Prende una verga in man di spini avvolta, E vola al danno altri pronta e veloce, La circonda una nebbia oscura e folta, Che fiori , ed erbe , e piante abbrucia, e coce. Ovunque il viso suo nojoso volta, Avvelena, fa nausea, infetta, e noce; Corrompe le città , gli uomini attosca , E fa , ch'un se medesmo non conosca.
294 Struggendosi l' Invidia affretta il piede, Giugne ad Atene , e sta mirando alquanto Quel popol, ch' in ricchezza ogni altro eccede, E tutto il trova in gioco, in festa , e in canto: Tiene appena le lagrime, che vede, Che cosa ivi non è degna di pianto. Ver la casa del Re la strada piglia , Per farlo
lieto della figlia.
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Jussa facit: pectusque manu ferrugine tinctii Tangit: et hamatis praecordia sentibus implet. Inspiratque nocens virus : piceumque per ossa 800 Dissipat, et medio spargit pulmone venenum. Neve mali spatium caussae per
latius errent ; Germanam aute oculos, fortunatumque sororis Conjugium, pulcraque Deum sub imagine ponit: Cunctaque magna facit; quibus irritaia, dolore 805 Cecropis occulto mordetur: et anxia nocte, Anxia luce gemit : lentaque miserrima tabe Liquitur, ut glacies incerto saucia sole: Felicisque bonis non secius uritur Herses; Quam cum spinosis ignis supponitur herbis,
dant flammas, lenique tepore cremantur.
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295 Con le man rugginose più che puote ,
far venir pallide, e smorte D'Aglauro le vermiglie, e bianche gote, Che così belle, e così grate ha scorte: Con la spinosa poi verga percote Quattro, e sei volte lei, più che può forte : È tal virtute han la sua verga , e palma, Che non nocendo al corpo affliggon l'alma.
296 Mentre l'afflitta Invidia e dispietata A più poter la misera flagella, Fa, che nel suo pensier contempla, e guata L'immagin di quel Dio leggiadra e bella: Le pone innanzi agli occhi fortunata Sopra d'ogni altra donna la sorella, Che sfogherà l'amoroso desio Con così vago, e così bello Dio.
297 Poichè di fiato putrido, e veneno Ha l'infelice Aglauro infetta , e guasta L'Invidia , e vede aver servito appieno La bellicosa Dea prudente e casta : Ritorna all'antro suo di serpi pieno, А pascer nova vipera, e cerasta; E lascia Aglauro al tutto invidiosa , Ch’Erse a sì bello Dio si faccia sposa.
298 Giorno e notte s'affligge, e si tormenta , E ch'abbia tanto ben, le scoppia il core: Ma dice pian , perch' altri non la senta , E sfoga sotto voce il suo dolore: Come una pira che non sia ben spenta , Ch'arde di dentro e non appar di fuore, Esala , e sfoga in qualche parte, e fuma, E dentro a poco a poco si consuma.
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