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Onde mossi a pietade essi vorranno, Che tronchino il tuo fil le tue sorelle: Dei Fati Ocira, che sol gli Dei sanno, Avea da dir mill' altre cose belle; E forse, che gli Dei trasformeranno Le sue membra biformi in tante stelle, Che somigliando il già terrestre velo, Faran, che splenderà Centauro in cielo. 236

Ma tostò lasciò star l' infante, e lui, Da maggior cura la vergine oppressa; E non curando ragionar d'altrui, Rivolse il profetar tutto a se stessa. Ahi lassa Ocira, ed indovina fui; Ma veggo ben, che non sarò più dessa: Soggiunse poi mirando il padre fiso, Spargendo amare lagrime dal viso:

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Dolce genitor mio, ferma le ciglia Ben fisse in me, se mai cara m❜avesti: Godi con gli occhi la tua mesta figlia, Pria che perda la forma, che le desti: Frati, e sorelle, e mia dolce famiglia, Dolce antro, dolci boschi, e dolci vesti Godetevi quel poco, che si puote, L'umana forma mia, l' umane note. 238

Felice me, troppo felice s'io Non avessi saputi i gran secreti Dell'alta mente dell'eterno Dio, E men scoperti i suoi santi decreti, Non perderei l'uman aspetto mio, E vedrei tutti voi contenti e lieti, Ch'or con faccia vedrò turbata e mesta, Mentre pascendo andrò per la foresta.

Jam mihi subduci facies umana videtur:

Jam cibus herba placet: jam latis currere campis Impetus est: in equam, cognataque corpora vertor. Tota tamen quare? pater est mihi nempe biformis. Talia dicenti pars est extrema querelae 665 Intellecta parum: confusaque verba fuere.

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Mox nec verba quidem, nec equae sonus ille videtur;
Sed simulantis equam: parvoque in tempore certos
Edidit hinnitus: et brachia movit in herbas.
Tum digiti coëunt, et quinos alligat ungues
Perpetuo cornu levis ungula: crescit et oris,
Et colli spatium: longae pars maxima pallae
Cauda fit: utque vagi crines per colla jacebant,
In dextras abiére jubas: pariterque novata est 674
Et vox et facies: nomen quoque monstra dedere.

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Già s'incomincia la mia sorte acerba ;
Già perdo il mio bel volto a voi sì grato;
Già più m'aggrada, e m' appetisce l'erba,
Che qualsivoglia cibo più pregiato:
Già capricciosa, indomita e superba,
Scorrer vorrei per ampio e verde prato:
Già prendo (e servo sol l' umana mente)
La cavallina forma mia parente.

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Servassi almen l' uomo al cavallo unito,
Già mio padre ha viril l'aspetto, e 'l dire :
Quest'ultimo parlar mal fu sentito,
Che nol potè distinto proferire:
Dappoi non fu nè parlar, nè nitrito,
Ma parve un, che fingesse di nitrire:
Di nuovo si provò, nè passò guari,
Che inniti mandò fuor spediti e chiari.

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Star si sforza in due piedi, ed usa ogn' arte
Per voler esser donna, e non le giova:
Ma trasformar si sente a parte a parte,
part
Già l' una, e l'altra man la terra trova;
Si congiungon le dita, e non si parte
Più l'un dall'altro, ch' un'altra unghia nova
Le lega, unisce, e cerchia interno intorno,
Ch'è nera e soda e quasi a par d'un corno.
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S'allarga il capo verso la cervice,
Si stringe ove si prende il cibo, e il fiato:
Per lo giogo del collo fan radice
Gli sparsi crini, e van dal destro lato;
Non men la veste misera e infelice
Cangiò contro sua voglia il primo stato;
Si fe cuojo col pelo; indi incarnossi,
Benchè una parte in coda trasformossi.
Metamorfosi Vol. I.

16

Flebat, opem que tuam frustra Philyreïus heros, Delpice, poscebat; sed nec rescindere magni Jussa Jovis poteras: nec, si rescindere posses, Tunc aderas. Elin Messeniaque arva colebas. Illud erat tempus, quo te pastoria pellis Texit; onusque fuil baculum silvestre sinistrae:

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Far. XI. Arg. Flebat, opemque tuam, etc. Mutationem Batti in lapidem indicem, superiori fabulae poëta anuectit. Nam Apollo, quum ob pulsatos interfectosque Cyclopas, quod Iovi fulmen contra Esculapium suppeditassent, divinitate privatus, Admeti regis Thessaliae armenta in pastorali habitu pasceret ; Mercurius boves, quae longius forte processerant, furto abactas in silva occultavit, Battoque cuidam equarum custodi, a quo uno visus fuerat, mandayit, ne cuiquam illud furtum indicaret : quod quidem ut libentius faceret, vaccam ei pulcherrimam dono dedit. Battus verò ei pollicitus est, se nunquam alicui vaccas illas indicaturum et lapidem proximum ibi, celerius quam se quicquam indicaturum. Mercurius, ut hominis experiretur fidem, suscepta alia figura ad eum paulo post rediit, rogaus an vaccas quasdam illac transeuntes vidisset, pollicensque si indicaret se vaccam cum tauro daturum. Quod cum accepisset Battus, sub quo monte boves pascerentur indicavit: quam ob perfidiam eum Mercurius in lapidem, qui Index dicitur, commutavit.

6-6. Philyreius heros. Chiron, Philyrae ex Saturno filius.

679. Elin. Urbs Peloponnesi est Elis, ab Eleo Tantali filio sic appellata: vel ut alii, ab Eleo Neptuni filio Altera est Arcadiae; tertia Hispaniae. Messeniaque arva. Messene et regio, et urbs fuit Peloponnesi, Pylo propinqua, juxta quam Amphrysus labitur. Est et Messene urbs Siciliae, unde Messenius derivatur.

243

Il misero Chiron piangendo forte,
Ch' aver la figlia si vedea smarrita,
Del suo destin doleasi, e della sorte,
Che tanto tempo il sostenesse in vita;
Chiamava tutta la celeste Corte,

Ma più, ch' ad altri dimandava aita
A Febo, onde attendea fedel consiglio,
Per aver dato al mal cagione il figlio.
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Meraviglia non è, se non soccore
Apollo il suo Chirone, e non si move;
Ch'oltre che contrastar non può, nè porre
Le man, dove sentenzia il sommo Giove,
Non può manco pregar Giove, che torre
Voglia le membra a lei ferine, e nove:
Ch'il suo crudele e temerario telo
L'ha posto oggi in disgrazia a tutto il cielo.
245

Chiron, non aspettar da Febo ajuto,
Che privo è del primier divin onore ;
E gli è caso sì misero accaduto,

Per stimar poco il suo Padre, e Signore.
Col folgor Giove avea morto, abbattuto
Un, che d'Apollo fu l'anima, e'l core;
Un, che Febo amò già più che se stesso,
Ma non è tempo a dir, chi fosse adesso.
246

D'ira troppo profana Apollo acceso,
Che non può contro Giove vendicarsi,
Dai Ciclopi, che fer quel dardo, offeso
Si tiene, è contro lor pensa sfogarsi.
Gli strali immantinente, e l'arco preso,
Trova i Ciclopi affumicati, ed arsi:
Nel primo che trovò la mira prese,
E la saetta, l'occhio, e l'arco tese.

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