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Dal dì, ch' in forma della figlia Giove
Sfogò l' immoderato suo desio,
Nove volte mostrò le corna nuove
La Luna, ed altrettante il tondo empio,
Pria che Diana un dì giugnesse dove
Le parve di fermarsi appresso un rio,
In una selva di quercie, e di faggi,
Per fuggire i fraterni estivi raggi.
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Le

Lodato ch' ebbe l'ombra, il bosco e il sito,
parve fare il saggio ancor dell'acque,

E dentro il piede postovi, e sentito
Il suo temperamento, assai le piacque;
E fatto a tutte un generale invito

Di doversi bagnar, lor non dispiacque ;
Ch'hanno il loco opportuno e ben disposto,
Ed ogni occhio, ed ogni arbitro discosto.
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Or che farà Calisto? se si spoglia,
Forz' è che l' error suo si manifeste:
S'indugia, e mostra ben, che non n' ha voglia;
Ma l'altre a forza le traggon la veste,
E scopron la cagion della sua doglia,
E il bel ricetto del seme celeste ;
Ella non può con man celar sì il seno,
Che l'error non palesi il ventre pieno.
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Fuggi, putta sfacciata, e come hai fronte
Star con noi senza il tuo virginal fiore?
Non profanar questo sacrato fonte,
Non macchiar questo limpido liquore;
Deh! non, Diana, non le dir tant' onte,
Che s'ha corrotto il corpo, ha casto il core:
Ha sano il suo di dentro, ma la scorza
No, che il tuo genitor le ha fatto forza.

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Cynthia: deque suo jussit secedere coetu.
Senserat hoc olim magni matrona Tonantis :
Distuleratque graves in idonea tempora poenas.
Caussa morae nulla est: et jam puer Arcas (idipsum
Indoluit Juno) fuerat de pellice natus.

Quo simul obvertit saevam cum lumine mentem; 470
Scilicet hoc unum restabat, adultera, dixit,
Ut foecunda fores: fieretque injuria partu
Nota: Jovisque mei testatum dedecus esset.
Haud impune feres: adimam tibi nempe figuram;
Qua tibi, quaque places nostro, importuna, marito.
Dixit: et, adversa prensis a fronte capillis,
Stravit humi pronam. Tendebat brachia supplex:

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465. Cynthia. Diana, a Cyntho Deli monte, ubi nata.

466. Senserat hoc olim ec. Jam pridem de hoc furto Jovis cognoverat Juno: sed ultionem in tempus aliud rejecerat.

469. De pellice. De Callistone.

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La casta compagnia sdegnata diede Alla compagna rea perpetuo esiglio. L'infelice Calisto, che si vede Esser in odio al virginal consiglio, Scontenta e trista al patrio albergo riede, Dove poco dappoi diè fuora un figlio, Che riuscì da seme sì perfetto

Nobil di sangue, d'animo e d'

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aspetto.

Giunon lo stupro avea già presentito
Che fatto avea l'adultero consorte,
Ed aveva in buon tempo stabilito
Di castigar colei di mala sorte;
Ma come ha poi notizia, ch'al marito
Ha fatto un figlio, s'altera sì forte,
Che più la pena a lei tardar non vuole,
Per l'ira ch'ha dell' odiosa prole.
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Questo mancava un testimonio certo
Dell' altrui fallo, e dell'ingiuria mia,
Disse ma tosto n'averai quel merto,
Ch'alla tua colpa convenevol fia;
Or or voglio, che toglia il tuo demerto
A te la forma, a me la gelosia:
Non avrai più quel sì lodato volto,
Col quale il senno al mio marito hai tolto.
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La prende con gran rabbia ne' capelli, E la declina a terra, e tira, e straccia; Quell' alza gli occhi lagrimosi e belli, E supplice ver lei stende le braccia: Già coprono le braccia orridi velli, E ver la bocca s'aguzza la faccia; Si veste a poco a poco tutto il dosso D'un rugginoso pel fra il nero,

e'l rosso,

Brachia coeperunt nigris horrescere villis,

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Curvarique manus, et aduncos crescere in ungues,
Officioque pedum fungi: laudataque quondam
Ora Jovi, lato fieri deformia rictu.

Neve preces animos, et verba superflua flectant,
Posse loqui eripitur Vox iracunda, minaxque,
Plenaque terroris rauco de gutture fertur.

Mens antiqua tamen facta quoque mansit in ursá.

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478. Brachia. Callisto, ut habet Palaephatus, venatrix erat: illa ingressa aliquando ursae cubile, interfecta est ab ursa, quae mox egressa, a Callistus comitatu in ursam mutata credebatur. Sed vide Pausaniam 4. lib. 8. Higynum l. 1. c. 1. Commentatorem in Arati Phaenomena.

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Poi le toglie il parlar grato e giocondo, Perchè non possa altrui mover col dire : Un minaccevol suono, ed iracondo Dal roco gozzo suo si sente uscire; L'unghia s'aguzza alla forma del tondo, E si rende atta a graffiare, e ferire, Curvar prima la mano, e poi si vede L'ufficio far del faticoso piede.

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Quel sì leggiadro e grazioso aspetto, Che piacque tanto al gran rettor del cielo, Divenne un fero e spaventoso obbietto Agli occhi altrui sotto odioso velo; L'umana mente solo, e l'intelletto Servò sotto l'irsuto e rozzo pelo; Questa, ch' in ogni parte Orsa divenne, L'antica mente sua sola ritenne.

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Se Giove ingrato ben chiamar non puote, Ingrato dentro all'animo il comprende, E se non può con le dolenti note, Quelle mani che puote al ciel distende; E in tutti gli atti suoi par, che dinote Che tutto il mal ch'ella ha, da lui dipende : Ch'ha per lui il volto, l'onor suo perduto, E che appartenga a lui di darle ajuto.

Gir

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quante volte sola dubitando

per

le selve come l'altre fere, Sen giva intorno alle sue cose errando, Ovver per mezzo a qualche suo podere, Dei proprj noti suoi frutti mangiando Pruni, mele, castagne, noci, e pere; Ch'ancor conosce che fal mal colui, Che del suo puote, e vuol mangiar l'altrui.

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