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Più folti boschi, per li novi rami, Delle meste sorelle di Fetonte , Ripieni avea di dolorosi e grami Pianti , e lamenti , e 'l fiume, e 'l piano, e 'l monte. E vedendo gl'insoliti legami, Che coprian lor la dolorosa fronte, Credo , ch'invidia gli toccasse il core , Che fosser fuor del solito dolore.

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Tosto altro siion la voce mesta rende,
Di bianche piume poi coprir si vede :
Il collo se gli allunga, e si distende,
Lega rossa giuntura i diti , e il piede ,
La bocca un rostro non aguzzo prende ,
L'ala asconde la mano , e non si vede ;
Ciguo avea nome il re Ligure , e quello
Nome ritenne essendo fatto augello.

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In mente ancor quanto già nocque, e serra
A Fetonte a spiegar troppo alto l'ale;
Però non molto alzarsi osa da terra,
Che teme Giove, e il suo fulmineo strale;
Sol fra paludi egli s'aggira , ed erra ,
E

per non cader giù, poco alto sale; Abita fiumi, e laghi , ed ogni loco, Che

pare a lui , che sia contrario al foco.
Squallido il Padre di Fetonte intanto,
Come morto cader del carro il mira ,
Odia il giorno, e se stesso

e il regio ammanto ,
E senza il suo splendor piange, e sospira :
Nè basta, che si doni in preda al pianto,
Che dal pianto si dona in preda all' ira :
E

nega in volto irato, e furibondo D'esser più scorta ilella luce al Mondo.

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e

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Sors mea principiis fuit irrequieta: pigetque
Actorum sine fine mihi, sine honore , laborum.
Quilibet alter agat portantes lumina currus:
Si nemo est , omnesque Dei non posse fatentur;
Ipse agat: ut saltem, dum nostras tentat habenas, 390
Orbatura patres aliquando fulmina ponat.
Tum sciei , ignipedum vires expertus equorum ,
Non meruisse necem, qui non bene rexerit illos.
Talia dicentem circumstant omnia Solem
Numina: neve velit tenebras inducere rebus,
Supplice voce rogant: missos quoque Jupiter ignes
Excusat , precibusque minas regaliter addit.
( Colligit amentes, et adhuc terrore paventes ,
Phoebus equos: stimuloque domans et verbere saevit:
Saevit enim, natumque objectat et imputat illis.) 400

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A Morghen in

GLI DEI PREGANO APOLLO PERCHE RITORNI A GUIDARE IL CARRO DEL SOLE

Lib. II.

Tav. 22

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Troppo è stato inquieto il viver mio,
Dal secolo primier ch’incominciai,
Ch’avendo al Mondo di giovar desio ,
Vagato son senza posarmi mai.
Poich'altro cuor di ciò trar non poss'io ,
Me ne starò ne' miei tormenti , e guai;
Trovisi un altro duce , un'altra scorta;
Che guidi il carro che la luce porta.

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S’alcun non v'è sì coraggioso e forte ;
Guidilo il re de' folgori , e de’ lampi ;
Ch’allor saprà quel che'l mio carro importe
S'avvien quel ch'io non credo, che ne scampi ;
Allor saprà, che non merta la morte ,
Chi guida i miei cavalli, ancorch’inciampi;
A cagion, che talor lanciar s'arresti
Lo stral , che rende i padri orbati e mesti.

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Mentre che 'l Sol così s'affligge, e dole,
Tutti i celesti Dei gli stanno intorno :
E pregan lui con supplici parole ,
Che renda il Mondo del suo lume adorno:
Che vede ben, che l'universa mole
Fia tenebrosa, se le toglie il giorno:
Giove si scusa , e prega ; indi minaccia ,
Non però sì, che più sdegnato il faccia.

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Gli sparti raggi per gli arsi sentieri
Febo ritrova, e l'infiammate spoglie :
Gli ancor smarriti e stupidi destrieri
Sotto il suo duro fren di nuovo accoglie;
E incolpa lor, che sì vani e leggieri
Mal secondar l'altrui giovinil voglie :
E, come sian cagion del suo martoro,
Gli batte, e sferza , e incrudelisce in loro.

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