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Quaeque viae tibi causa? quid hac, ait, arce petisti,
Progenies Phaethon haud inficianda parenti?
Ille refert: 0 lux immensi publica mundi,
Phoebe pater, si das usum mihi nominis hujus,
Nec falsa Clymene culpam sub imagine celat;

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Ha rosa a questi intorno la coperta,
Ma la corona non ha punto guasta:
S'ha mangiata la margine, e scoperta
La lettera, ch' ancor dura contrasta;
La scrittura si sta libera, e certa,
Che il suo rabbioso dente non gli basta;
Quivi son tutte l'opre dei migliori
Filosofi, poeti, ed oratori.

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Guarda quei libri di mal' occhio il Tempo, E rodergli si sforza più che mai: Poi fra sè dice: e verrà bene il tempo, Che di sì saldi io n' ho perduti assai, Questo non sarà già così per tempo, Nè le glorie giammai spegner potrai Di quei prudenti principi e discreti, Amici d'oratori, e di poeti.

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Nè spegnerai, come di molti eroi,
L'invitto nome di ENRICO secondo,
Ch'ha fatto l'alto Dio scender fra noi,
Acciocchè dia più bella forma al mondo:
Cantan già molti i chiari gesti suoi
Con sì felice stile, e sì giocondo,
Ch'a far, che restin divorati e spenti,

Ti varran poco i tuoi rabbiosi denti.

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Con gli occhi il sole onde illumina il tutto, Onde scopre ogni dì tutte le cose, Vide il figliuol, che Climene ha produtto, Star con le luci basse e vergognose: O figliuol, disse, e chi t' ha qui condutto? Chi tanto alto desir nel cor ti pose? Chi t'ha dato l'ardire, e chi 'l governo Di pervenire al bel regno paterno?

Pignora da, genitor, per quae tua vera propago
Credar, et hunc animis errorem detrahe nostris.
Dixerat; at genitor circum caput omne micantes 40
Deposuit radios, propiusque accedere jussit:
Amplexuque dato: Nec tu meus esse negari
Dignus es; et Clymene veros, ait, edidit ortus:
Quoque minus dubites, quodvis pete munus, ut illud
Me tribuente feras, promissis testis adesto
Dís juranda palus, oculis incognita nostris.
Vix bene desierat: currus petit ille paternos,
Inque diem alipedum jus et moderamen equorum.

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O padre, ei disse, s' io non sono indegno Di poterti chiamar per questo nome, Per lo splendor, ti prego, illustre e degno, Che nasce dalle tue lucide chiome, Dammi qualche certezza, e qualche pegno, Onde si vegga manifesto, come

lo sia vero a te figlio, a me tu padre,

Nè m'abbia il falso mai detto mia madre.

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Il sol, ch' intende quella intensa voglia, Ch' ha fatto al figlio far sì gran viaggio, Per poter meglio a lui parlar, si spoglia Del suo più chiaro, e luminoso raggio; Nè basta, che l'abbracci, e che il raccoglia, E gli mostri nel viso il suo coraggio; Per dimostrar, ch' egli è sua vera prole, Disse lieto ver lui queste parole:

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Non si potrà negar giammai, Fetonte,
Ch' un ramo tu non sia dell' arbor mio,
Per quel, che mostran l'animo, e la fronte,
Che ti scopron figliuol d'un grande Dio:
Non mente Febo, e Climene; ed ho pronte
Le voglie ad empir meglio il tuo desio:
Chiedi pur quel, che più t'aggrada, e giova,
Che di questo vedrai più certa prova.
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Circa il proposto mio fermo pensiero,
Serva Palude Stigia il tuo rigore:
Voglio, perchè ei non dubiti del vero,
Ch' in ciò mi leghi il mio libero cuore:
Della proferta il giovinetto altiero
Troppo si confidò del suo valore;
E disse: un giorno voler esser duce
Del suo bel carro, e della sua gran luce.

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Poenituit jurasse patrem, qui terque, quaterque
Concutiens illustre caput, Temeraria, dixit,
Vox mea facta tuá est: utinam promissa liceret
Non dare! confiteor, solum hoc tibi, nate, negarem.
Dissuadere licet: non est tua tuta voluntas:
Magna petis, Phaethon, et quae nec viribus istis
Munera conveniant, nec tam puerilibus annis.
Sors tua mortalis; non est mortale quod optas.
Plus etiam, quam quod Superis contingere possit,
Nescius adfectas: placeat sibi quisque licebit;
Non tamen ignifero quisquam consistere in axe,
Me, valet, excepto: vasti quoque rector Olympi, 60
Qui fera terribili jaculatur fulmina dextra,
Non aget hos currus: et quid Jove majus habetur?
Ardua prima via est, et quả vix mane recentes
Enituntur equi: medio est altissima caelo,
Unde mare, et terras ipsi mihi saepe videre
Sit timor, et pavida trepidet formidine pectus.

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