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Acta Deae refero: pro quo mihi gratia talis
Redditur, ut dicar tutela pulsa Minervae;
Et ponar post noctis avem: mea poena volúcres
Admonuisse potest: ne voce pericula quaerant. 565
At puto non ultro, nec quicquam tale rogantem,
Me petiit. Ipsá licet hoc a Pallade
Quamvis irata est: non hoc irata negabit.

quaeras,

562. Acta Deae refero. Gesta a Cecropis filiabus Minervae nuncio.

563. Ut dicar. Cornicem ob garrulitatem aversatur prudentiae Dea. In Minervae templis lucisque raro, Athenis omnino non adspicitur. Plin. lib. 10. cap. 12.

564. Noctis avem. Noctuam quae Minervae sacra, quia noctivida in tenebris perspicit.

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Dir non mi curo come s' allevasse Quel figlio, come poi fu sì prudente, Che il primo fu che il carro immaginasse, Cosa di tanto comodo alla gente; Nè come sempre poi su 'l carro andasse Per nascondere i piedi del serpente: Ch' il finse far per pompa, e per grandezza, E'l facea per coprir la sua bruttezza.

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Nè men dirò, come Giove allettato Dal suo sottile ed elevato ingegno, Ch' avesse il Sol sì ben solo imitato, Nel ciel d'un nuovo lume il fece degno; Nè come tutto in stelle trasformato Si fe l'Auriga del celeste regno: Che'l fan tredici stelle, e intorno a loro Con Perseo han per confin Gemini, e 'l Toro.

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Ma ben dirò, che per la lingua mia, Per accusar chi mal la legge osserva, Jo ne fui detta novelliera e spia, E tolta dalla guardia di Minerva: E dove io l'era serva, e compagnia, Tolse in mio luogo altra compagna, e serva; E questo m'è per stimolo e flagello, Ch'io son posposta ad un notturno augello.

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Dovrebbe far la mia disgrazia accorto Ogni altro augel di quanto noce il dire, E quanto merta biasmo, e quanto ha torto Quel che i delitti altrui cerca scoprire: Tu vedi ben la pena ch' io ne porto, Priva del grado mio, del mio servire, Che già m' ebbe sì grata, e mi diè nome Di sua compagna, e vo' narrarti come.

569

Nam me Phocaïca clarus tellure Coroneus
(Nota loquor) genuit: fueramque ego regia virgo;
Divitibusque procis (ne me contemne) petebar.
Forma mihi nocuit; nam dum per littora lentis
Passibus, ut soleo, summá spatiarer arená,
Vidit, et incaluit pelagi Deus: utque precando

569. Nam me Phocaïca. Phocis regio est Gracciae, finitima Atticae: unde Phocaicus deducitur.

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Di Coroneo di Focide fui figlia,
Oimè, ch' io rinovello il mio dolore ! )
Vergine regia e bella a maraviglia,
E già fei molti Re servi d'Amore.
Mio nome al nome di colei simiglia,
Che cerchi d'accusare al tuo signore :
Già della mia beltà molti Re presi
Per moglie mi bramar, ma non v'attesi;
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Perchè le voglie mie pudiche e monde
Fean resistenza, come all' acque un scoglio.
Andando un dì per l'arenose sponde
Del mar con lenti passi, com' io soglio,
Arder feci Nettuno in mezzo all' onde,
Siccome lampad' arde in mezzo all' oglio;
Nè il mar suo tutto potè spegner dramma
Dell' accesa da me nel suo cor fiamma.
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D'amor costretto alfin del mare uscito, O Dio, che lusinghevoli parole Mi disse ! O donna, ch'oggi il cor ferito M' hai con le tue bellezze al mondo sole, Donna, che col tuo sguardo almo e gradito Pareggi, e passi il lampeggiar del Sole, Non fuggir, ma quel Dio gradir ti piaccia, Il cui gran regno tutto il mondo abbraccia,

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Quel Dio signor di quel degno elemento, A cui ciascun degli elementi cede, Se la terra io sommergo a mio talento, Pirra, e Deucalion ne faran fede, Temendo non restare il foco spento, Fuggito è nella più suprema sede; Dall' aer puoi veder s' io son temuto, Ch'ogni giorno ho da lui censo e tributo.

Tempora cum blandis absumsit inania verbis ; 575
Vim parat, et sequitur: fugio, densumque relinquo
Littus, et in molli nequicquam lassor arena.
Inde Deos, hominesque voco: nec contigit ullum
Vox mea mortalem : mota est pro virgine virgo,
Auxiliumque tulit. Tendebam brachia caelo:
Brachia coeperunt levibus nigrescere pennis.·

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579. Pro Virgine Virgo. Pallas, perpetua gaudens virginitate,

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