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coraggio di parlare a nome della libertà; perchè questa sacra parola in bocca loro è un non-senso; anzi debbo pur dire è un'insidia, come venne altrove ampiamente dimostrato.

Perchè i nostri studj dian frutti di più pratica e di più prossima ulilità, convien dunque limitarli a ponderare, dall'una parte l'opinione di quei democratici, che s'oppongono per ora alla libertà d'insegnamento, per tema che il clero non riporti una troppo funesta vittoria nella concorrenza della libertà; e dall'altra, l'opinione di coloro, che vorrebbero veder largita quando che sia ogni più ampia libertà d'insegnamento; imperocchè tanta fede essi nutrono nella bontà del principio, cui sono devoti, che non sanno temere alcuna sinistra conseguenza, nè anche dalla sua immediata applicazione.

Il problema del libero insegnamento potrebbe dunque, a mio avviso, essere posto così: Data la società e dati i governi come oggi sono ordinati, vedere se per ridurli più sollecitamente a ciò che dovrebbero essere, giovi meglio che essi continuino a sovrintendere soli alla publica educazione; o pure lasciar che ogni cittadino possa liberamente far educare i figli, come e dove e da chi gli torna più a grado.

Quei liberali, che stimano più utile lasciare allo Stato la cura esclusiva della popolare educazione, ragionano di questa maniera : Non si tratta già di sancire nuove leggi da applicarsi ad una società ideale; imperocchè in questo caso nessuno sarebbe di noi più sollecito a reclamare libertà intera in tutto e per tutti. Il mondo pur troppo bisogna pigliarlo com'è, se non vuolsi correr rischio, per zelo soverchio dei principj, di peggiorarne, anzichè migliorare le condizioni; come il medico, che prescrivesse al malato le norme del vivere confacenti agli individui sani e robusti. È innegabile, che le condizioni presenti della società sono ben lungi da quelle proprie ad uno Stato normale. Permettere in un paese contristato dalle diverse fazioni, la folle concorrenza delle scuole private, è voler inoculare alle venture generazioni il veleno delle discordie civili; è dare ai partiti il mezzo di perpetuarsi fra la sempre crescente confusione d'opinioni e di principj; è seminare il caos. Sacerdozio sublime quand'è ordinata dallo Stato, l'educazione del popolo non è più che una speculazione piena di pericoli, ove sia abbandonata ai capricci individuali. Dall'una parte si hanno pochi individui disgregati e impotenti; dall'altra una vasta e poderosa associazione, che si chiama la Chiesa. Ordinare la libertà d'insegnamento finchè dura tanta disparità di condizioni, è volere che trionfi, non la libertà, ma la Chiesa; è un volere che prevalga di nuovo la clericale preponderanza del medio evo. Nelle condizioni nostre proclamare la libertà è come dire agli individui: separatevi ed isolatevi ancor più; facia pure ciascuno a suo senno; e chi, povero ed oscuro, vuole aprire una scuola in concorrenza con quella della Chiesa, padrone. Ma non è d'uopo di sottile accorgimento per vedere, come ciò facendo,

invece della pretesa libertà si venga a raffermare l'antica servitù ed il più assoluto monopolio, a benefizio del clero. È crudele ironia permettere all'individuo di entrare solo e senza risorse in lutta con un'associazione potentissima. Dovere dello Stato sarebbe di fare tutto il possibile per impedirla, provedendo che il maestro resti nella propria scuola libero dal giogo di qualsiasi dogma, ed il prete si tenga nella sua chiesa estraneo alle mondane sollecitudini. Si guardi alla dolorosa esperienza fatta nel Belgio. I democratici di quel paese ben vollero inaugurare il libero insegnamento, ma più tardi s'accorsero d'avere in tal modo ceduto terreno al vinto sì, e però non mai domo nemico; talchè ora sono costretti darsi gran briga per ritrarsi dal malo passo, in cui si sono troppo improvidamente avventurati. Fin quando non sia proclamata la libertà di coscienza, con l'abolizione dei privilegj che sono attribuiti alla religione dello Stato; fin quando non sia consacrata la libertà dei culti, avremo il diritto di dire, che il libero insegnamento è « un misero dileggio, una crudele insidia, una sleale provocazione. » Fin quando non si sarà compiutamente disgiunta la scuola delle scienze da quella dei dogmi, la libertà d'insegnamento sarà sempre una delusione disastrosa; » e chi volesse inaugurarla anzi tempo, si renderebbe reo della più malefica tra le colpe sociali, quella di « abbandonare all'arbitrio di tutti l'insegnamento, che è l'oggetto più importante dell'Umanità, » senza poterne sperare altro risultato, che di « divergere le opinioni, ingenerare sentimenti oppostissimi, creare idee reluttanti, offuscare le intelligenze, costituire uno stato di demoralizzazione, di repulsione, di dissoluzione; quello stato, su cui il despotismo edifica sua esecrata potenza (1). »

Ma altri vi sono, i quali vedendo, come sia impossibil cosa il raggiungere d'un tratto il trionfo completo d'ogni libertà, stimano utile il profittare di quella poca, che viene mano mano concessa ai popoli dalla irresistibile forza dei tempi, a dispetto del mal volere dei governanti; e perciò sono disposti ad accettare anche quel tanto di libertà d'insegnamento, che vassi quà e colà inaugurando, quantunque di pari passo non proceda il democratico riordinamento delle altre instituzioni. Non ignorano certo, che meglio sarebbe avere libertà intera; ma non per questo partecipano alle apprensioni di chi stima una libertà limitata riescire più infensa della sua negazione assoluta. Se la libertà è un bene, certo val meglio averne molta che poca; ma per la medesima ragione, quando non se ne possa aver molta, sempre meglio poca che nessuna. Una libertà tira l'eltra, come venne già detto: nè si può giungere altrimenti alla tarda conquista di tutte le dovuteci franchigie, che col cominciare, ove ci occorra, a pigliarcene qualcuna, e valersi di questa come arma per conse

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guire le altre. Ed ecco perchè essi accolgono di buon grado anche la libertà d'insegnamento, e l'ammettono, come fanno d'ogni altro diritto, senza fraporvi ostacoli o restrizioni volontarie, per tema della prevalenza perniciosa del clero o d'altra setta qualsiasi.

MAURO MACCHI.

DE L'EMANCIPATION CIVILE DES FEMMES

Dans mes quatre premiers articles je crois avoir établi que le but du contrat social est de garantir à chacun des co-associés leur entière liberté dans les limites de l'égalité; que la femme, étant la co-associée de l'homme, a les mêmes droits que lui; que les différences existant entre les deux sexes ne peuvent, au point de vue de la justice et de la raison, introduire aucune différence dans leurs droits; que les aptitudes, causes motrices de l'activité, étant individuelles, aucun ordre religieux ou social ne peut les entraver sans blesser la nature des choses, et sans devenir oppressif; que chacun ne peut être juge que de ses aptitudes propres, et ne doit conséquemment pas préjuger celles des autres; qu'il doit les respecter, tout autant qu'il veut qu'on respecte les siennes; que la femme est égale à l'homme dans le droit politique, mais qu'on ne doit le lui reconnaître que quand elle le réclamera, et dans la mesure où il sera réclamé, parce qu'il y aurait péril pour le progrès humain à confier l'exercice d'un droit redoutable à des êtres incapables actuellement de l'exercer. J'ai dit, que dans mon pays les hommes avancés réclament l'émancipation civile des femmes, et qu'elle a même des partisans parmi ceux qui vivent sans idéal politique et social.

Pour qu'une réforme soit réclamée, il faut qu'elle réponde à un besoin nouveau. Le besoin nouveau se manifeste de deux manières : la protestation des intéressés contre l'ordre de choses qui les opprime; les désordres et les douleurs, résultats inévitables de l'antagonisme entre ce qui est et ce qui doit être. La protestation elle-même se produit sous deux formes principales: la critique de ce qui doit disparaître, suivie de l'affirmation de ce qui doit le remplacer, c'est le côté philosophique. Le dédain des lois, le mépris des préjugés, manifestés dans la conduite, c'est le côté pratique. Eh bien! est-il vrai qu'en France les femmes protestent sous l'une de ces formes, et souvent sous toutes deux, contre les lois, les coutumes, les préjugés qui les subalternisent? Est-il vrai que cette protestation, faite en yertu de sentiments, de besoins nouveaux, soit une

source de désordres et de douleurs? Oui, répondrai-je à ces deux interrogations; et l'émancipation civile des femmes n'est pas seulement la satisfaction d'un sentiment de justice, mais aussi celle d'un besoin d'ordre.

Les lois, les coutumes, les préjugés ont subalternisé la femme; privée d'éducation nationale, voyant se fermer devant elle les écoles professionnelles, toutes les carrières publiques, certaines professions élevées, se voyant déclarer incapable dans la cité, mineure ou plutôt absorbée dans le mariage, livrée à l'omnipotence de l'homme; elle a vu encore les seuls modes d'activité productrice qui lui fussent permis, être insuffisamment rétribués.

A mesure que l'industrie a pris un plus grand essor, deux phénomènes se sont produits pour la privilégiée et la bourgeoise, la dot est devenue la condition sine qua non de l'union des sexes; et les filles de la bourgeoisie n'ayant plus en perspective un mariage assuré, ont dû se créer des moyens d'existence de là pour leur famille l'obligation de leur donner une instruction presqu'égale à celle de leurs fils. Les classes élevées suivirent le même exemple. Peu à peu ces femmes, mêlées à toutes les luttes politiques, appelées à examiner la valeur morale et sociale des idées, se constatèrent à elles-mêmes leur propre valeur, et aujourd'hui elles trouvent inique de supporter la moitié des charges de l'état, sans recueillir la moitié des avantages sociaux; elles trouvent non moins inique et révoltant d'être égales aux hommes devant le code des crimes, des délits, des punitions, et de leur être indignement sacrifiées devant le code civil, dans la cité et les aptitudes; et elles tendent incessamment à briser les barrières qu'on a dressées devant elles. Depuis cet essor de l'industrie, dans la classe ouvrière les hommes et surtout les femmes gagnent moins de là, pour l'homme hésitation à se mettre en mariage; et pour la femme, nécessité, si elle veut vivre, de se choisir un soutien ; mais d'autre part, hésitation à s'unir légalement, parce que la loi livre ses enfants et elle à la brutalité du mari. Cet état de choses produit des désordres, que tout à l'heure je signalerai; ajoutons que les femmes de celte classe se sentent et sont réellement les égales des hommes, car elles n'ont pas moins d'instruction qu'eux, elles ont plus de pénétration, et les influencent beaucoup. Comprend-on maintenant l'antagonisme existant entre l'état mental et matériel des femmes, et les lois, les coutumes qui les subalternisent?

Examinons maintenant, comment s'établit la protestation dans les différentes couches sociales, et quels sont les désordres et les douleurs qu'elle produit.

La femme de l'aristocratie est généralement mariée fort jeune; ignorante des lois, pleine d'illusions d'amour, elle est épousée pour sa dot, par un homme généralement blâsé; on la jugera trop faible pour nourrir

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son enfant; la loi l'a jugée incapable de régir ses biens: qu'a-t-elle donc à faire? absolument rien que d'aimer, de briller. La part d'activité que la nature lui avait départie pour son amélioration, pour le bien de la famille, est condamnée fatalement à s'éteindre, ou bien à commettre des actes nuisibles à elle ét aux autres. Bientôt le mari préfère à la jeune femme quelqu'actrice à la mode, ou quelque fatte habitante du quartier Bréda; la pauvre femme humiliée, désolée, mais non désillusionnée, aime hors du mariage; et emploie son activité dans des intrigues pleines de l'attrait du mystère. Souvent le mari sait... mais pourvu que sa femme garde le decorum, il ne se soucie, lui, que de garder la dot, dont il emploie les revenus à parer ses idoles d'un jour. Le monde aussi sait... et il tolère, pourvu que Madame ne s'affiche pas. Et il fait bien les seules garanties de la vertu d'une femme étant d'être aimée de son mari, et d'être sérieusement occupée, comment aurait-on le courage de blâmer celle que la coutume condamne à l'oisiveté, que le dédain de son mari condamne à de longs jours de délaissement? Ainsi cette femme est condamnée par des lois et des coutumes stupides à vivre d'une existence fausse, déloyale, est condamnée à s'amoindrir!

Dans la classe ouvrière, je l'ai dit, le salaire est tout à fait insuffisant pour les femmes, et elles sont obligées d'avoir un soutien. Les unes se marient; et chaque jour diminue le nombre des unions légales, parce que l'ouvrier ne se sent pas en état de pourvoir aux besoins d'une famille ; et parce que, de leur côté, les jeunes filles voyant des maris de leur classe dépenser au cabaret et avec des femmes, non seulement le prix de leur travail et souvent de celui de leur malheureuse femme, mais encore le peu qu'ils peuvent tirer de la vente de leur chétif mobilier; les voyant accabler de mauvais traitements leurs femmes et leurs enfants, les jeter à la porte, emmener de force la jeune fille belle et pure, et la jeter des bras de sa mère dans un lupanar; voyant, dis-je, tous ces crimes, toutes ces horreurs, qui ne sont que l'exercice de droits légaux, elles reculent épouvantées; et passant un compromis entre l'amour et la prudence, elles se contentent du mariage libre, qui ne donne à l'homme aucun droit sur elles, leurs enfants et leur travail; l'immoralité de la loi les a délivrées du préjugé, qui fait dépendre l'honneur de la femme dans l'union des sexes, de l'intervention de l'écharpe municipale. D'autres moins morales, parce qu'elles sont plus ignorantes, et qu'elles ont vecu dès leur bas âge dans la honteuse promiscuité des manufactures et des fabriques, vivent dans un libertinage éhonté, et finissent dans des maisons de tolérance du plus bas étage, où elles dégradent et infectent les hommes. Les moins nombreuses d'entre-elles, douées d'une riche organisation, ayant l'amour du luxe, sont séduites, puis abandonnées par les fils de l'aristocratie et de la bourgeoisie; alors elles deviennent entretenues, ou peuplent les maisons de tolérance d'un rang moins bas; et les mères sans pitié, qui

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