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gore matematico; se ne potranno restringere o allargare le proporzioni; ma infine parmi un fatto incontrovertibile, che nelle società odierne è assai maggiore che nelle passate il numero dei ricchi e degli agiati; che il lavoro frutta più ad un numero assai maggiore d'artigiani; e che però, quantunque sia aumentato il numero degli indigenti, le condizioni generali dei popoli sono assai migliorate. Il fenomeno del pauperismo adunque non prova nulla, nè contro la legge del progresso, nè a favore della teoria, che fa del suo annientamento immediato una questione di vita o di morte per la società. L'ordine della discussione mi chiamerebbe ora ad esaminare l'altra parte della vostra lettera, in cui v'accingete a dimostrare questa tesi che il pauperismo è la conseguenza inevitabile dell'appropriazione privata del suolo. Ma qui, o signore, vi chieggo licenza di ceder la parola ad un giudice più competente di me in queste materie. Egli è uno degli autori dell'eccellente opera, che porta il titolo di Organisation communale et centrale de la République (Paris 1851); il quale da me pregato a volermi dire il suo parere intorno al sistema economico di Colins, che è pure il vostro, mi trasmise l'articolo seguente, che la Ragione accoglie con tutta l'affettuosa riverenza dovuta alla parola d'un amico e d'un maestro. Nè a voi medesimo rincrescerà, che io introduca nella nostra polemica un altro interlocutore; si perchè troverete in esso un avversario degno di voi, e si perchè avrete in ciò un nuovo pegno dell'alta stima, che io nutro del vostro capere, anche quando non mi è dato di consentire con voi.

AUSONIO.

E i nostri lettori han potuto già apprezzarla dal compendio, che ne faciamo negli articoli su 'l Riordinamento politico e sociale.

Il signor A. De Potter ragiona dal punto di vista dell'assoluto. Noi crediamo la ricerca dell'assoluto non men vana nelle scienze morali, che nelle scienze fisiche. Tuttavia possiamo seguirlo in questo campo, purchè parliamo tutti e due lo stesso linguaggio, ed abbiamo un punto di par

tenza commune.

Ora fin da principio dobbiam notare, che non c'intendiamo su 'l valore dei vocaboli terra e capitale.

Non è il pianeta qual esisteva innanzi all'apparizione dell'Umanità, non è la terra propriamente detta, che costituisce ciò che chiamasi proprietà fondiaria. Li uomini non s'appropriano se non ciò che ha un valore; e per

chè il suolo abbia un valore, bisogna che si trovi in un certo mezzo, in un certo stato di preparazione e di rapporto. Bisogna insomma, che mediante il suolo vi sia rendita presente o prossima. È la rendita la misura del capitale; è la rendita, che determina il valore della proprietà.

D'altra parte, il signor A. De Potter stabilisce a torto una distinzione economica fra il suolo e il capitale, sì che il primo soltanto sia indispensabile al lavoro o alla produzione. Acciocchè l'uomo possa lavorare, gli occorre il suolo, senza dubio, ma gli occorrono eziandio strumenti di lavoro. Puossi egli concepire il lavorante senza attrezzi, nè sementi, nė tetto, nè vestimento, nè riserva per vivere egli e la sua famiglia, nella stagione che la terra gli chiude il proprio seno? E perchè possa lavorare un po' più in grande, gli occorrono bestiami, giumenti, e bentosto non solo attrezzi, ma vere machine. Infine, perchè egli possa lavorare utilmente, bisogna che possa permutare i suoi produtti. Laonde il suolo, che ei cultiva, vale tanto più, quanto è meglio fornito e meglio situato, quanto più produce, e quanto più facilmente può farsi il cambio de' suoi produtti. Di che risulta, come sa ognuno, che il valore delle terre è relativo alla qualità del terreno, alla vicinanza dei grandi centri di popolazione, alla commodità delle vie di communicazione, ecc..

E non è ancor tutto. Li uomini non sono già tutti occupati direttamente nella cultura del suolo: vi son quelli, che lavorano i produtti per trasformarli; e per questa classe di lavoranti il capitale, che rappresenta insieme l'attrezzo e la materia, su cui deve esercitarsi la loro industria, è tutto; poichè senza di esso non c'è lavoro possibile, e quindi nè produtti, nè mezzi d'esistenza.

Convien dunque riconoscere, che il capitale mobiliare non meno del suolo è indispensabile al lavoro; e lasciateci con tutti li economisti moderni chiamar capitale ogni ricchezza atta ad essere fecondata dal lavoro; o meglio ancora, ogni lavoro accumulato.

Se il signor De Potter ci accorda questo antecedente, noi accetteremo il suo modo di ragionare la sua logica è la nostra; e diremo con lui, ma estendendo a tutti i capitalisti ciò ch'egli applica soltanto ai proprietarj del suolo: «I capitalisti son padroni del lavoro nazionale, poichè essi soli possedono li oggetti, su cui deve esercitarsi. »

Li operaj sono alla mercè dei capitalisti, poichè mancano della materia e dello strumento del lavoro.

Il salario è sempre basso il più possibile, poichè è fissato dai capitalisti.

La produzione è minima, poichè non profitta che per una scarsa parte al vero produttore.

Ma la distribuzione sopratutto è iniqua, poichè è fatta a benefizio di coloro che possedono, cioè del minor numero; e a danno di coloro che lavorano, cioè del numero maggiore.

E ora, ancorché noi traessimo tutte le conseguenze, che tira il sig. De Potter, conseguenze che del resto sono perfettamente logiche e inevitabili, a che riusciremmo? Non fa mestieri di gran logica per sapere, che riusciremmo all'uno o all'altro dei varj sistemi socialistici, che vennero proposti come rimedj o come palliativi dai predecessori del sig. Colins; e in ultima conclusione, al communismo.

Or bene, e poi ? Che farebbe il communismo, se venisse subito instaurato nella società europea? Farebbe precisamente quel che fa il proprietarismo. Imposto alla società contemporanea, ne avrebbe tutti i vizj. Di più, introdurrebbe nel suo seno nuovi elementi di disordine e forse di barbarie; perchè ne rimescolerebbe la feccia, e sopratutto perchè non sarebbe in armonia con i costumi, le coscienze, lo stato morale della più gran parte. Chi può conciliare il communismo con l'amore eccessivo del guadagno, con l'individualismo feroce, con una produzione limitata, con un lavoro penoso, ributtante, quasi sempre odioso, con desiderj infiniti di godimenti, e con una somma di ricchezze insufficiente a provedere tutti almeno dello stretto necessario?

Che se all'incontro si riguardi il communismo, non come un sistema da imporsi di lancio, ma come un ideale, un'utopia inattuabile forse nella sua verità assoluta, a cui però la società debba via via avvicinarsi; allora si cercherà di entrare nel campo della pratica, e di studiare tutti i progressi che potrebbero tentarsi nel senso di quell'ideale. Se tal è il vostro avviso, chiamatevi socialisti o communisti, noi siamo con voi; poichè in voi ravvisiamo uomini d'ordine insieme e di progresso. Ma se tal è il vostro avviso, finchè il pauperismo possa essere annientato, voi accetterete tutto quanto può scemarue l'intensità; vi associerete alla fondazione delle case di rifugio, dei ricoveri per i lattanti, degli asili per i fanciulli; voi benedirete l'instruzione ancorché data dagl'ignorantelli, e l'elemosina ancorchè passata, proh pudor! per mano de' gesuiti.

Il sig. A. De Potter vede nel ritorno del suolo alla proprietà collettiva la distruzione del pauperismo: può darsi. Noi vediamo per altro, che il pauperismo afflige sopratutto le nostre città manifatturiere; e non afferriam bene il rapporto, che corre fra la non-appropriazione del suolo e il pane quotidiano degli operaj. D'altra parte sapiamo, che la democrazia sociale possede mezzi certi d'impedire il chomage e l'indigenza d'ogni uomo, che voglia lavorare per sè e la sua famiglia; e sapiamo pure, ch'essa non mancherebbe di dare a tutti i fanciulli un'instruzione morale e razionale, sufficiente a ciascuno per potersi sviluppare conforme alle sue facultà, nelle condizioni presenti, e senza punto attentare al diritto di proprietà e alle fortune acquistate. Certo non sarebbe quello il bene perfetto, non sarebbe l'agiatezza immediata e l'educazione compita; ma non sarebbe tuttavia un immenso progresso, al paragone di ciò che avviene oggidi? Vero è, che per effettuare cotesto programma, il quale non porterebbe il minimo

sconvolgimento sociale, è d'uopo anzi tutto del potere politico. Se il sig. A. De Potter non ha bisogno dello Stato per attuare il suo, che lo dica subito; e quanti vogliono, come lui, la distruzione del pauperismo, uniranno i loro sforzi ai suoi. Dobbiam noi assicurarlo, che non saremo degli ultimi?

In somma, noi concediamo volontieri al sig. A. De Potter, che il pauperismo sia la conseguenza dell'appropriazione individuale della terra, purchè egli ci accordi, che è del pari la conseguenza dell'appropriazione individuale degli altri strumenti di lavoro. Soltanto noi crediamo, che la proprietà fu per lo passato, ed è ancora al presente, un fatto necessario, una condizione fatale dello sviluppo dell'Umanità. In ogni caso poi riconosciamo, che sarebbe un gran bene sociale di sostituire alla proprietà sminuzzata e individuale la proprietà collettiva. Ma ci sembra che la società percorra una via, che dee condurla questo risultato. Il tempo delle grandi compagnie agricole non è lontano: terrà dietro immediatamente a quello delle grandi compagnie di lavori publici. Bisognava ch'esistessero i mezzi di distribuzione, perchè la produzione fosse stimolata ad ordinarsi.

L'associazione dei capitali in accomandita, il concentramento in poche mani mediante i giochi di borsa e li artifizj delle grandi case di banca, tendono a costituire una potente feudalità finanziaria. Noi crediamo che per giungere all'unità bisogna passare per questa via. Ora se il sig. De Poller conosce un mezzo per effettuare quell'ordine sociale, quell'unità di cui parliamo, senza attraversare il regno della finanza, nè subire forse per lungo tempo il governo della plutocrazia, voglia darcene notizia. Lo stato presente non è si bello, che ci stia troppo a cuore di mantenerlo; e non ci rincrescerebbe punto, avanti di morire, d'assiderci, non fosse che un instante, su 'l limitare della terra promessa.

Ciò che noi domandiamo al sig. A. De Potter, non è già un sistema economico migliore di quello che ci governa: sarebbe troppo facile; e noi c'impegneremmo a fabricargliene uno ogni matina. Sono i mezzi pratici, per quanto siano lenti, purchè pacifici. Quindi, ammessa questa proposizione:

Che il pauperismo è la conseguenza dell'appropriazione individuale del suolo, e che il modo d'annientare il pauperismo consiste nel ritorno del suolo alla proprietà collettiva;

Si domanda, come giungere a questo risultato senza violenza, nè scossa, a profitto di coloro che non possedono, ed a vantaggjo anche dei possidenti.

Ecco il problema. Finchè non venga risoluto, i ragionamenti più calzanti, più irrepugnabili, andranno a rompere contro la determinazione di una società minacciata nella sua esistenza.

CARLO.

DEL SENTIMENTO RELIGIOSO

III.

Ma che! La voce, che si leva da' sepolcri; questa santa pietà, che fermò i passi delle nomadi generazioni, e fe' sacra la patria per la custodia degli avelli; questo dolce colloquio del superstite co 'l morto parente, la memoria delle virtù che sorvivono in quelli affetti, chi vorrebbe nei costumi nostri dirle infeconde di virtù civile, sociale, domestica? E sia pure sovrana l'aritmetica; ma i produtti dell'imaginazione e del sentimento sono dunque così poca cosa, che loro non si debba assegnare alcun valore? E quando dalla rigidezza de' vostri argumenti siete trascinati a riguardare la terra non altro che come un banchetto, che le generazioni con tanto affanno s'imbandiscono per brev'ora, e passano ratte a sepelirsi nell'eterno oblio; oh! non sentite come sia amara derisione il domandare magnanimità e grandezza in ricambio di cotesto sarcasmo?

Non è utile lo illuderci. Facile è architettare in teoria l'umana felicità; ma la grande questione sociale è un problema, di cui conosciamo il termine ultimo, non quelli che alla soluzione conducono. Essi sono nel seno della natura, nel seno di questa grande artefice, che preparò il camelo ai viaggiatori del deserto, a quelli delle alpi l'asinello; nel seno di questa grande geometra, che riempiuta d'olio la sua lampada, misurò la durata della fiamma; e perchè avesse viva a mantenersi, trovò forse necessario lacerare la pagina che le servi all'arduo calculo, e ne disperse i frammenti, e noi qui, poveretti, noi smarriti in su le traccie di quelli, c'ingegniamo da secoli raccoglierne quanto maggiormente ci è dato, e di ogni frammento studiarne la forma, e qual altro a quello risponda, e tutto per riavere, tutto per connettere quella pagina. Che se vinti dalla difficultà del lavoro, sospirando, domandiamo il perchè di questo destino: ecco l'aurora, e le sue mille rose, ed i dolci mormorii, che salutano il conduttiero del di; ecco il giorno, e la varietà dei colori, e l'immenso brulichio della vita; ecco la sera, e la santa mestizia degli addii, e la quiete solenne della notte, e l'armonia nella sapienza, e la sapienza nel. l'infinito, e l'infinito nelle tenebre del pensiero; e le imagini degli oggetti riflessi via dipingonsi lontano nei lontani orizonti; passano le nazioni, rovinano li imperi, e fumo e polvere e vano rumore di fama, e nulla più resta. E lo spettacolo di quelle rovine non commoverebbe li animi nostri, se al di sopra di quel fumo e di quella polvere, se fra il rumore di quella fama non si levassero ancora serene le imagini di Zoroastro e di Confucio, di Orfeo e di Pitagora, di Socrate e di Gesù; se la memoria de' loro affetti non ricordasse di quali affetti abbiano palpitato coloro, che sotto quelle ceneri eternamente dormono sepolti.

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