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sventura e dal sangue, nulla chiesero a sè stessi di tutto questo; avevano avuta commune la povertà, ora avrebbero posseduto in commune il terreno. La proprietà de' Rumeni, al loro ritorno su i piani della Dacia, fu dunque commune e lavorata in commune; fu il vero ager publicus, proprio di tutti e di nessuno in particolare.

Nulladimeno non tutti, come è facile il pensarlo, scesero alla pianura; molti si tennero ai monti, sia che ve li intrattenessero le abitudini di domicilio, li utili e i guadagni già fatti e trasmessi per eredità di padre in figlio, sia naturale desiderio di individuale indipendenza e gusto di una proprietà con nessuno divisa. Così avvenne, che mentre al piano si fondava, ai tempi di Radu-Negru, la proprietà collettiva, al monte si conservasse e si consolidasse la proprietà individuale.

Questa separazione non si mantenne però a lungo, e sia che co 'l tempo il vigoroso montanaro scendesse al piano, sia che in quella età sommamente libera, in cui ognuno poteva seguire le inclinazioni proprie, taluni preferissero di cultivare una qualche terra per proprio conto, avvenne, che la proprietà individuale quà e là spuntasse anche su le pianure, e che vicino al campo cultivato dai proprietarj collettivi, si trovasse il campo cultivato dall'individuo. Cosi la proprietà individuale dai monti si trasportò al piano, e diede origine alla classe de' proprietarj collettivi.

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La condizione della collettività ne' possessi presenta de' pericoli per la sua conservazione; infatti i principi non tardarono molto a qualche lembo di terreno dalle proprietà collettive per darlo a qualche capo militare, o bojardo, in ricompensa de' suoi servigj; ed il popolo, che è giusto e generoso ne' suoi instinti, si associava volentieri a questi atti di publica riconoscenza. Vennero in seguito le donazioni alle città, ai borghi, ai villaggi, destinate ad opere di carità publica ed a sollievo della Umanità sofferente. Questi esempj di donazioni risalgono fino ai tempi primi, e troviamo un Commune del distretto d'Ilfoval essere obligato, secondo la carta di donazione di Radu-Negru, a nutrire li impotenti ed i poveri della città di Kimpolongo. Molte di tali donazioni, amministrate dal Commune, si conservarono incolumi fino ai nostri giorni. Esse alla loro origine, nelle proporzioni, ne' modi, e secondo i fini per cui furono date, si devono riguardare come legitime; ma il pericolo stava nell'esempio, e l'agro collettivo, una volta tocco, correva pericolo di usurpazioni. Ne queste si fecero aspettare a lungo; alle nazionali ricompense tennero dietro le donazioni private, alla beneficenza le spogliazioni; ed il popolo si vide toglier le terre fecondate dal suo sudore, e date dal principe a cortigiani avidi ed adulatori.

Le chiese ed i conventi ebbero essi pure la loro parte, e ben lauta, a questo sociale banchetto; ma le donazioni, che venivano ad essi fatte, erano tutte a condizione che fondassero scuole ed ospedali, che distribuissero determinate elemosine, che alleviassero le sofferenze de' poveri,

e li nutrissero; che ospitassero i viaggiatori, e loro fornissero per tre giorni l'alimento.

Il carattere adunque di queste prime donazioni de' beni posseduti in nome collettivo furono ricompense od opere di beneficenza. L'ammissione però de' nuovi proprietarj accanto agli antichi fu fatta secondo le forme consacrate dal diritto, ossia mediante una transazione; infatti i cultivatori, quantunque non per titoli personali, erano tuttavia per titolo collettivo proprietarj incontrastabili. Si convenne adunque di dividere i terreni donati in tre parti eguali; due delle quali furono divise in lotti e date agli antichi possessori, la terza passò ai nuovi proprietarj, bojardi, monasteri, o communi, restando a carico de' coloni la cultivazione della parte a quelli ceduta. Questa transazione da una parte scemava i profitti, e rendeva più gravi i pesi de' proprietarj cultivatori, ma dall'altra ne sanciva in modo solenne li anteriori diritti. La proprietà di questi ultimi, quantunque gravata d'un carico, non era men sacra di quella dei primi; era colpita d'un'ipoteca in lavoro, e ne derivava una specie d'associazione fra il proprietario cultivatore ed il proprietario demaniale.

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Tipografia V. Steffenone. Camandona e C. via S. Filippo, 21, rimpetto alla Chiesa

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Li abbonamenti si ricevono alla Tip. V. STEFFENONE, CAMANDONA e C., via San Filippo, num: 21.

SOMMARIO

Dei principj dell'ordine sociale, III. Il matrimonio e la donna, II. tito nazionale italiano.

Il par

DEI PRINCIPJ DELL'ORDINE SOCIALE

III.

All'illustre De Potter

Veniamo alla morale. Voi volete, o Signore, che ognuno sapia qual è il suo dovere, e perchè questo dovere è obligatorio. Su la prima parte della proposizione io non ho che ridire; ma quanto alla seconda, avanti di ammetterla conviene che c'intendiamo. Se richiedete, che l'uomo conosca un perchè di ciò che dee fare, ossia che si renda una ragione del proprio dovere, che ne' suoi atti morali operi deliberatamente e non instintivamente, che abbia una regola, un criterio pratico per discernere il bene dal male, le cose prescritte dalle vietate io la concedo pienamente senza pur l'ombra d'una difficultà. Ma se all'incontro esigete, ch'egli sapia l'ultimo perchè del dovere, posseda cioè un principio, un sistema razionale, scientifico, assoluto dell'obligazione morale io non posso più consentire con voi, e debbo risolutamente negare la proposizione. Di quel principio han sempre disputato, e disputano sempre,

e sempre disputeranno i filosofi stessi, perchè non se ne ha veruna notizia certa e positiva; come potrei dunque concedervi, che debbano conoscerlo tutti, e quindi anche li illetterati, l'ignoranti, il vulgo, cioè il massimo numero?

Il dovere ha il suo fondamento pratico nella legge delle relazioni naturali fra li uomini. Ora questa legge in tanto ci è nota, in quanto si manifesta alla nostra coscienza; e però la notizia, che ne abbiamo, è subordinata necessariamente alle condizioni della coscienza medesima, e si rischiara, si svolge, si compie con quel processo, che tiene lo spirito umano nell'acquisto progressivo della conoscenza. Appunto perchè la scienza del dovere deriva dalla scienza dell'uomo, il perchè del dovere non sarà mai l'ultimo, l'assoluto, non potendosi mai aver la scienza ultima ed assoluta nè dell'uomo, nè di verun'altra cosa. Nell'infanzia dei popoli si ha dell'uomo una cognizione rozza, grossolana, rudimentale; quindi anche la ragione del dovere corrisponde a quel grado imperfettissimo di conoscenza ; e l'uomo adempie la legge morale per quei soli motivi, di cui la sua coscienza è capace. Ma di mano in mano che apprende a conoscer meglio la propria natura, e si forma un concetto più chiaro, più alto, più esatto delle sue relazioni co' suoi simili, vien pure a conoscer meglio la legge morale; e i motivi, che parlano alla sua coscienza e stimolano la sua volontà, sono di un ordine assai più razionale, ed hanno un valore assai più scientifico. E questo progresso non dee aver fine; perchè la mente umana, che è limitata, non arriverà giammai a conoscer l'uomo quanto è conoscibile, essendo infinita la sfera della conoscibilità cosi dell'uomo, come di ogni altro ente.

Laonde, allorchè voi soggiungete, che non saprebbe che cosa ha da fare, chi non sa che cosa egli è, nè donde viene, nè dove va, io distinguo del pari; e vi concedo benissimo, che non potrebbe aver coscienza d'alcun dovere, chi non avesse cognizione alcuna di sè medesimo ipotesi impossibile in qualsivoglia periodo di vita sociale; ma nego recisamente, che a conoscere i doveri necessarj all'esistenza della società, nella sua rispettiva condizione, si richieda la cognizione dell'intima essenza dell'uomo, del suo primo principio, e del suo ultimo fine. Perocchè a negarlo mi basta per tutta ragione il fatto, che la società ha esistito ed esiste, quantunque non abbia mai posseduta, nè posseda quella scienza assoluta: una tale scienza non è dunque condizion necessaria dell'ordine sociale, nè per conseguente della legge morale.

E se fosse mai vero, che chi non ha cognizione dell'intima essenza dell'uomo, dovesse abbandonarsi al suo impulso fisico, alla sua attrazione o repulsione organica, e fosse davvero un pazzo a sacrificarsi per li altri; oh! bisognerebbe a dirittura mandare il genere umano a errar per le selve, o a chiudersi nei manicomj; giacchè la piena e perfetta cognizione dell'intima sua essenza niuno può averla, e meno l'ha chi più se ne vanta. No, per buona ventura, il dovere del sacrifizio non dipende punto, nè in teoria nè molto meno in pratica, da un sistema qualunque di teologia o di filosofia : egli è il più nobile dei sentimenti, onde la natura ha distinto e privilegiato l'uomo su tutti li altri esseri; è la legge degli animi generosi, che subordinano l'egoismo all'amore, che adempiono eroicamente al debito della fratellanza e della solidarietà umana, e che mettono la loro felicità nel rendere felici li altri. E costoro non s'inspirano certamente dai sillogismi d'una teoria, dalle astrazioni d'un sistema consultano il proprio cuore, interrogano la propria coscienza, e le obediscono a prezzo di non importa quale sacrifizio, e senza riguardo alcuno a paradisi o ad inferni. Se questi sono pazzi, deh possano tutti, ma tutti! li uomini perdere il senno cosi !

Ripiglierò adesso ad una ad una le vostre domande, accompagnandole con le mie risposte.

D. 1. Una società può esistere senza una morale, che sia ad un tempo di ciascuno e di tutti ?

R. Conviene determinare il senso delle parole morale e tutti. Qualora tutti significhi, non propriamente la totalità matematica, ma soltanto la generalità dei socj; e per morale s'intenda, non una dottrina scientifica, assoluta di tutti i doveri, dai primi principj fino all'estreme applicazioni, ma una serie di dettami pratici della coscienza intorno alle relazioni fondamentali degli uomini fra loro: si, affermo io pure, che una società non può esistere senza una morale commune. Altrimenti, lo nego; poiché, torno a dirlo, che la società esista, è un fatto; e che non esista ancora una morale teoretica, ridutta a grado di scienza assoluta, ammessa e professata da tutti e singoli i socj, è un altro fatto non meno evidente del primo.

D. 2. Se questa morale è necessaria, non fa egli d'uopo, perchè sia realmente obligatoria, che abbia una sanzione reale, cioè necessaria, inevitabile ?

R. Sanzione reale, nel caso nostro, dovrebbe dire premio o ca

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