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e Boccaccio ad Ariosto e a Machiavelli, dai Visconti ai primi Medici, il suo più vivo, il suo più vigoroso, e più fecondo impulso l'ebbe dall'Archeologia. Eco vivente dell'anima de' maggiori nell'anima de' figlj, ecco perchè essa ebbe allora giustamente il nome d'Archeologia: ecco perchè essa sparve al cadere del Risurgimento, e venne a prender il suo posto un'erudizione posticcia, sterile, e solitaria, e arrogante quanto più stupida e servile, giustamente detta antiquaria. È vero, che senza il riscatto, senza la nuova indipendenza della nostra nazione, diveniva impossibile riavere quell'Archeologia, che avea presieduto al concepimento e all'esecuzione de' capolavori artistici e letterarj, che nobilitarono il nostro nome prima dei padri gesuiti e del concilio di Trento. Quel ch'essa allora poteva, era di trasformarsi in pura scienza, uscendo da' triboli e dalla muffa degli eruditi senza senno e senza patria, e cosi diventar seria, riflessiva, critica, e all'uopo spirito forte; nè potendo parlare ad un popolo che s'apparteneva, procacciar almeno di farsi la compagna di liberi intelletti, in cerca di concetti più larghi, più umani, e preparar dal canto suo, come l'Archeologia di cinque secoli avanti avea fatto co'l Risurgimento, la riscossa delle menti giovanili co 'l porgere un sicuro e diretto impulso al riscatto della nazione.

Questa nuova fase dell'Archeologia italiana, emancipata dall'arida e angusta erudizione, è opera di G. B. Vico. Con quell'ardita mente essa diviene scienza, pigliando le mosse là dove le erano fisse, dalla logica ad un tempo e dalla storia, dalle origini italiche, dalla nostra più antica civiltà. Il perchè Vico fu in pari tempo fondatore dell'Archeologia critica e dell'Archeologia italo-etrusca.

Sotto li auspicj di quel nome venerato, noi entriamo nella rassegna degli studj storici concernenti la civiltà d'Italia avanti Roma.

Vico fu colpito dal pregiudizio commune anche a' primi intelletti dell'epoca sua, che attribuiva un assoluto primato allo studio della Storia romana su quella dell'antichissima Italia; si che in grazia di Roma, la nazione, onde quella era uscita, veniva tuttavia manomessa e taciuta nei libri. E pure, egli dovette dirsi, Roma facilmente si appalesa per la sintesi e la conseguenza storica del genio e de' rivolgimenti civili d'Italia, almeno quindici secoli avanti la sua esistenza. Donde siffatto errore e tanta ingiustizia negli studj italiani? Non forse dal peccato originale del nostro publico insegnamento, il pedantismo? Svezzandoci dal riflettere e dal ragionare, esso ci ha fatto accettare quella doppia ingiustizia, onde la Roma republicana s'impose alla nostra nazionalità per conculcarla; cioè la distruzione de' grandi monumenti nazionali, sopratutto degli Italoetruschi, e il discredito non disgiunto dal silenzio di quanto riferivasi alla nostra precedente storia. Ripetevasi, senza saperlo, quanto venne messo in opera dal senato romano, quando spergiurò l'impegno dell'unità nazionale d'Italia, onde già erasi fatta possibile tra i nostri popoli, per ascoltare la

feroce ambizione di cosmopolitismo onde fummo posti a mazzo con tutte le straniere conquiste a' piedi del Campidoglio.

Però a Roma non era dato disperdere tutti i monumenti civili della patria nostra, massime i figurati: ma può dirsi che riuscisse quasi per intero allo sterminio de' monumenti scritti, delle memorie storiche de' nostri antenati. Si sa che Varrone e Catone Seniore aveano copiati per i loro lavori storici i numerosi annali d'Etruria, non che i computi cronologici di quei popoli. Ogni città possedeva le sue memorie storiche, frutto di ragguardevole letteratura. Dalla sola Ascoli del Piceno il console Strabone portò via nella guerra sociale, come preziosissimo bottino, tal copia di libri che gli fu ascritto a gravissimo delitto l'essersi attribuito. E quando Catone rinfaccia ai Liguri (Orig. II) d'esser il solo popolo d'Italia privo di lettere e di monumenti storici, non dice aperto, che il rimanente della nazione avanti i Romani era illuminata e civile, come quella che aveva proprj e notabili annali?

Per la sistematica ferocia della cadente Republica romana tutte siffatte storie vennero dissipate. Dell'antichissimo non ci è rimasto ne' libri che quello, che piaque farci sapere tanto agli scrittori di Roma, quanto a quei di Grecia colà accorsi, e impegnati a scrivere storie secondo le viste politiche di quella tremenda aristocrazia. Ecco perchè Tito Livio, Dionigi d'Alicarnasso, Strabone, Diodoro di Sicilia, per tacer dei minori, non ci porgono us la patria nostra antichissima se non cenni storici o monchi o favolosi, o notizie indigeste, incerte, e confuse, o racconti incredibili e contradittorj, cacciando insieme immigrazioni di popoli diversi, senz'ordine di tempo e di luogo, unitamente a fatti della maggior civiltà appaiati a cose dell'estrema barbarie e disennatezza, a carico dello stesso popolo e della stessa città. Non potendo tacere della civiltà dell'antichissima Italia, specialmente i Greci, gente boriosissima nell'antichità, ne svisarono la storia imbrogliandola. Se non che con l'epoca imperiale parve giunta l'ora della riparazione storica della manomessa Italia. Se n'ebbero le più belle speranze nel veder un imperatore prendersene di proposito l'assunto. Claudio, molto prima di essere destinato al trono, aveva preparato con lunghi studj e non poche ricerche giovate da' dotti del suo tempo una compiuta Storia dell'ItaliaEtrusca, opera in venti libri, a cui diede l'ultima mano imperatore. Ma che? Appena publicata fu talmente perseguitata dalla vecchia aristocrazia non 'ancora schiacciata dall'impero che quel progevolirsimo lavoro su l'Italia avanti Roma poteva, alla morte di Claudio, riputarsi già perduto (Svet. in Claud.)

Impossibile dissimularne la prestanza storica, dopo la scoperta del frammento del discorso pronunziato da Claudio, quando furono ammessi personaggi di Gallia nel senato romano: prezioso frammento storico conservato nelle ben note tavole lionesi.

Sparita quella storia, non ci rimangono che monumenti indiretti su la

civiltà dell'antichissima Italia: sono autentici e rilevanti, e fra essi accenniamo le leggi romane delle XII tavole, che Roma non avendo potuto affermare opera propria, essendo ancora abbastanza barbara, volle far credere tratte di Grecia, per non confessare anche quelle instituzioni aver avute da Italia, da cui avea tratto quanto possedeva. Facile sarebbe con breve studio comparativo sorprendervi la loro indole e provenienza etrusca, come pure nella loro manifesta discordanza di leggi aristocratiche, e di leggi plebee, stabilir il tempo in cui da Etruria passarono ne' popoli latini e in Roma.

Ma se non c'inganniamo, v'è ancora per noi tale monumento storico su l'antichissima civiltà italo-etrusca, che può farci quasi dimenticar la perdita degli altri. È l'antichissima lingua italica o latina. Elevatissima ne' suoi concetti filosofici, essa non potè appartenere che agli Italo-etruschi. I Romani la presero da essi, e se l'attribuirono nelle publiche bisogne, come fecero di poi con lo stesso idioma i Goti e i Longobardi. Qui dunque piace fermarmi, e tenterò ricostruire, secondo che pensava acutamente Platone, la storia civile d'un popolo per mezzo dell'analisi della sua lingua. Detto fatto. Ed ecco l'origine dell'aureo trattatello di Vico: Del sapere dell'antichissima Italia da ricavarsi dalle origini della lingua latina (De antiquissima Italorum sapientia ex latina linguæ originibus eruenda. A cui aggiungansi due lettere in proposito al Giornale dei letterati di Pisa, e lo scritto susseguente De constantia Jurisprudentiæ et Philologiæ, nei volumi II e III delle opere di Vico, raccolte e illustrate da G. Ferrari. Milano, 1835.)

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Che risultamenti storici trasse Vico da siffatte ricerche? Che avanti Roma, era già Italia terra di civiltà, e maestra di sapere alle genti occidentali: Che la scuola italica di Pitagora era italo-etrusca, fondata su l'osservazione psicologica e naturale, cosi propria a quella gente, di cui tutta la formula nell'accordo del numero e dell'armonia: Che deposito di quei tesori filosofici era la lingua latina: Che Roma ancor barbara non poteva esserne stata autrice, ma che bensì aveva dovuto trarla da quel vicinissimo popolo, l'etrusco, allora avanzatissimo in civiltà, da cui la stessa Roma avea avuto ogni conquista civile, massime l'architettura e l'arte militare: Che Roma fu doppia, civile in quanto ritraeva i lumi e li umanitarj interessi della gran famiglia italiana, e su la loro scorta effettuava, secondo la necessità dei tempi, la nostra nazionalità forte ed una; barbara poi in quanto sovvertiva li ordini di quella civiltà, e negava la nazionalità italica, sedutta dall'egoismo di permanente conquista. Pur troppo è vero, che nei grandi ingegni poca scintilla gran fiamma seconda. Ma che peccato, che quell'alto intelletto di Vico non volle sentire l'immenso valore della sua scoperta storicofilologica, e non capire ch'esso era chiamato a risuscitare interamente l'antichisssima Italia! In questo modo egli avrebbe scritta una vera scienza nuova, non solo per la patria sua, ma pe 'l mondo intero, che com'ebbe

l'antica civiltà dal genio italo-romano, la nuova duratura non potrà averla se non da quelli addentellati storici e da' popoli latini. Vico, ingolfato nei sistemi della storia ideale eterna su 'l corso e ricorso delle nazioni, rigettò come spurio quel trattatello su l'antichissima Italia, onde proluse a' suoi lavori di critica storica: ma senz'esso dove sarebbe oggi per noi Italiani la sua vera gloria?

Dunque dobbiamo a Vico i fondamenti dell'Archeologia Italo-etrusca. Con essi avevasi già davanti agli occhi il disegno e il metodo dell'edifizio. Quindi il più era fatto. Quel che rimaneva a compiere non era gran fatto difficile, perchè non consisteva in altro che nel cercare e mettere insieme i monumenti dell'antichissima Italia, scampati alla rabia romana per la dimostrazione larga e diretta della sua storia civile. Come si scorge, qualunque dotto italiano favoreggiato dalla fortuna, quando l'avesse voluto, era da tanto per recar a fine simile impresa.

Possiamo dire, che questo dotto Italiano si rinvenne dapprima nell'autore della Verona illustrata, il marchese Scipione Maffei, valente letterato non meno che giudizioso e instancabile erudito, tenerissimo delle cose italiane. Devesi al suo esempio e alla sua voce eloquente, se Dempstero, Pasteri, e Gori si posero a raccogliere e a publicare quante antichità Italo-etrusche erano conosciute a quei tempi, circa la metà del secolo decorso. Era il miglior modo di popolarizzare la gravissima scoperta di Vico su la civiltà più remota della patria nostra. Tutti li spiriti culti e riflessivi posero la più viva attenzione a quella raccolta monumentale, a quelle conseguenze storiche immediate che ne scaturivano. Si capi pur troppo, che quindi innanzi non potevasi parlar più di belle arti presso i popoli più culti dell'antichità nell'Occidente senza comprendervi i tanti capolavori etruschi. Quindi le raccolte di simil genere fatte quasi contemporaneamente da Winkelmann e da Hancarville.

CARLO ARDUINI.

BIBLIOGRAFIA

ALCUNI CENNI SU LA PENA DI MORTE

DELL'AVV. FEDERICO VENTURINI, Mortara, 1856.

Ancora una protesta contro questa iniqua legge di distruzione violenta e disumana, contro questa mostruosa consacrazione dell'immorale principio del fatalismo, che la filosofia ha sconfitto, e la coscienza universale repudia e condanna. La voce, che s'alza di nuovo a domandare la inviolabilità della vita umana, si confunde anche questa volta co'i rantoli estremi di nuovi giustiziati; poichè il patibolo, obbrobrioso a dirsi! è ormai in permanenza nell'unico libero Stato d'Italia! Il giovine autore di quest'opuscolo ha voluto, a quanto ne sembra, raccogliere in poche pagine i principali argumenti, che la scienza e il senso morale hanno sin qui produtto a giustificare la necessità dell'abolizione della pena di morte; e fu suo intento di certo (la dizione facile e piana, l'assenza di ogni astruseria scientifica ce ne fanno avvertiti) di rendere popolare, quanto è possibile, la santa dottrina della riabilitazione e del perfezionamento di ogni individuo, mercè il benefizio dell'educazione e dell'ajuto sociale. Noi additiamo, con sentimento di profonda compiacenza, ai lettori della Ragione questo libretto del Venturini, la cui importanza, misurata dal generoso intendimento che lo inspirava, dallo scopo eminentemente umanitario a cui è rivolto, non isfugirà a niuno di coloro, che sanno qual potente fattore di civiltà e di progresso sia la riforma del diritto penale.

LA LEGGE UNIVERSALE DI CONSERVAZIONE

ne' suoi rapporti col delitto e con la repressione dei delinquenti

DELL'AVVOCATO

FRANCESCO POLETTI *

1 vol. in-8 di pag. 116. L. 1, 50.

Si spedisce in provincia franco mediante un vaglia postale.

(*) È una ristampa degli articoli publicati nella Ragione sotto questo titolo, con l'aggiunta degli altri su l'imputabilità.

Ausonio Franchi DIRETTORE.

Lesca Giuseppe GERENTE

Tipografia V. Steffenone, Camandona e C. via S. Filippo, 21, rimpetto alla Chiesa

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