Abbildungen der Seite
PDF
EPUB

rappresentazione medesima; e questo mantenimento essendo voluto, affinchè li elementi o rapporti del fenomeno spicchino più distintamente per la coscienza, entra sempre nell'attenzione un fine prefisso qualunque, almeno quello di conoscere. La volontà ne è parte essenziale; poichè se la rappresentazione è mantenuta in presenza d'un oggetto, o sotto l'impero d'una passione, senza che v'abbia coscienza più o men chiara di volere, noi parliamo di un'impressione netta e durevole, o di un appetito costante, come presso molti animali in certi casi; ma per passare da cotesta tensione all'attenzione, fa mestieri d'uno sforzo. Lo sforzo propriamente detto si caratterizza tanto più, quanto l'interesse è meno sensibile, il fine più generale o più lontano a questo limite estremo l'attenzione è certamente propria dell'uomo.

Applicata agli oggetti sensibili, l'attenzione è osservazione; agli atti proprj della coscienza, è riflessione. Ma queste funzioni versano d'ordinario in una serie d'atti coordinati, sensazioni, giudizj, raziocinj, in guisa che l'attenzione semplice, quella che si appli- · cherebbe a un momento determinato e isolato, non è altro che il fatto elementare della riflessione, presa in tutta la sua ampiezza.

Sarebbe un abuso manifesto il muovere, come Dugald Stewart, dall'opposizione fra le sensazioni inavvertite e le sensazioni a cui faciamo attenzione, per fissare il fenomeno dell'attenzione in queste ultime senz' altro schiarimento. La coscienza ammette certi stati vaghi, indistinti, confusi, in ogni genere di rappresentazioni; nè basta che tali stati le divengano chiaramente accertati, perchè debbasi qualificare come sforzo e volontà la parte, che la sua attività prende nei fenomeni. Altra è la condizione del viandante, che vede a cadere un bolide, e muta su l'instante di pensiero; altra quella dell'osservatore, che attende la meteora, e se la tiene presente il più possibile, anche dopo scomparsa, a fin di conoscerne la natura e le circostanze il primo vede e sente, il secondo guarda e lavora. Il linguaggio può ben indicare questi due uomini come attenti in confronto di un terzo, che avrà veduto senza vedere, e non ricorderȧ la stella cadente se non al momento che gli si domanderà se l'ha avvertita; ma l'analisi, tenuta a maggior precisione, chiamerà i tre casi: sensazione confusa, sensazione distinta, e attenzione propriamente detta. Vero è, che il fatto della distrazione verso certi fenomeni si spiega con l'applicazione dell'attenzione ad altri fenomeni nello stesso momento, ed è ciò che dicesi preoccupazione; ma allora dunque il migliore stato per aver sensazioni distinte da tutti

li accidenti, che possono sopragiungere, si è di non esser attento a nulla di determinato quando sopravengono. Ora se non si fa nello stesso tempo alcuno sforzo per ritenere e studiare la coscienza presente, vi è sensazion netta; non potrebbe dirsi che vi sia attenzione. Del resto, può la sensazione nuocere alla sensazione, senza che facia d'uopo aggiungere un'attenzione marcata all'una delle due.

La confusione dei due significati vulgari dell'attenzione ha condutto il psicologista scozzese a questa singolarità, di riguardare come serie rapidissime d'atti determinati di attenzione e di volontà i prodigj di destrezza dell'arte del pianista o dell'equilibrista : prodigj, da cui l'abitudine, che ne è inseparabile, sbandisce appunto la riflessione e lo sforzo. Lo stesso autore mette in dubio la possibilità, che i medesimi oggetti si trovino, per rispetto all'attenzione (ed alla sensazione distinta), or separati, ed ora riuniti in un solo instante; egli è tentato di reclamare l'intervenzione della memoria, anche per la percezione della figura visibile, giacchè non potrebb'esserci figura, dove non sono parti da considerare distintamente. Ma qual è dunque la funzione dell'io, che si possa concepire separatamente dalla memoria? E s'è egli fatta un'idea ben chiara di ciò, che diventerebbe una coscienza rigorosamente instantanea, cioè annichilata ad ogni instante? Noi dobbiamo concedere a D. Stewart più che non ci domanda; ma non ne segue punto, che l'attenzione si divida in atomi; chè allora la riunione di questi atomi per la memoria cesserebbe d'essere essa stessa un fatto d'attenzione il che non ha senso. Che cosa significano queste speculazioni sopra una facultà isolata? Quando si parla d'attenzione, convien intendere la coscienza attenta con le altre funzioni, ond'essa è inseparabile; e non mica volgere le distinzioni d'analisi in rotture effettive; e bentosto si riconosce con l'osservazione, fra quali oggetti possa farsi, o no, quel che s'appella vulgarmente una division dell'attenzione. Siffatte questioni han poca importanza agli occhi di chi sa, che l'unità, la pluralità, e il tutto, loro sintesi, s'incontrano in tutti i fenomeni senza eccezione; ma giova sapere, che cosa valgano le parti più ingegnose d'una filosofia molto analitica in apparenza, nemicissima delle entità, secondo ch'essa credesi, ma che non definisce nulla a rigore e non coordina nulla.

6. Della riflessione. Distinzione dell'uomo e dell'animale. - Rapportare rapporti, come tali, alla coscienza; paragonando rappresentarsi il paragone stesso, e distinguere, comporre i rapporti cosi

astratti in luogo dei gruppi naturali o immediati; opporsi, determinati come non-io, li oggetti medesimi che talora si caratterizzano come io; e sottometterli a quel processo d'analisi e di sintesi, che presso l'animale non sembra guari oltrepassare le cose immediatamente date, diverse da lui stesso: tali son veramente, io credo, i fenomeni della riflessione, che io chiamerei volontieri una coscienza della coscienza, una relazione delle relazioni come tali. Ora se la riflessione così intesa non fosse unita con la rappresentazione di poter essere ritenuta, o lasciata, o complicata d'elementi nuovi nella coscienza semovente; cioè, se non fosse subordinata allo sforzo e alla volontà, essa dovrebbe svanire ad ogni instante della sua produzione, e quindi non esisterebbe in realtà. L'uomo, che riflette, dee dire a sè stesso, che le sue operazioni sono volontarie, e dirigerle in conformità; o l'attenzione gli sfuge, e la riflessione con essa, perchè v'ha incompatibilità fra questa funzione sempre tesa, da una parte; e dall'altra, si la serie naturale dei pensieri provenienti dall'instinto, dall'abito, e dagli accidenti esterni, e sì ancora quell'altra tensione più o men durevole, da cui qualche passione vivissima esclude tutto ciò che non è lei. È dunque manifesto, che la coscienza della coscienza, distinta, costante, continua, è una funzione volontaria; e che quando la possediamo, ce la diamo noi.

Ma bisogna potersela dare. Questa potenza sembra mancare agli animali. Il carattere distintivo, che si suole unanimemente riconoscere fra essi e l'uomo, la riflessione, implica, come è chiaro, la volontà, la possibilità della volontà. È lo sviluppo del volere, è il passaggio dalla spontaneità semplice alla spontaneità libera, che segna l'apparizione della coscienza umana in seno alla natura.

Che che ne sia infine dell'esistenza di una libertà autogeneratrice dei momenti della coscienza, illusione o realtà, quest'illusione è propria dell'uomo, e lo distingue profondamente. Il linguaggio degli animali si misura dalle loro passioni; noi lo capiamo abbastanza per esser sicuri, e la sua finità così ristretta lo prova, che non ammette punto il pensiero dei puri possibili, degli atti indeterminati, dei futuri ambigui, come non suppone alcun pensiero del pensiero. Essi all'incontro, se giungessero a capire le nostre parole, ciò che appunto questa differenza impedisce, ci udirebbero con istupore, ad ogni instante, accusare il passato, speculare su l'avvenire, e supporre che ognun di noi potrebbe fare ciò che non fa, e non fare ciò che fa; potrebbe, avrebbe potuto, potrà, senza pure mutar nulla alle condizioni dell'atto. Ecco perchè non basta alle nostre

communicazioni ciò che basta a quelle degli animali, esprimere passioni attuali con un linguaggio d'azione o con emissioni di voci instintive e costanti. Per essi, non analisi, non dubio, nè ipotesi, non condizionale generale e indipendente; per noi, questo condizionale indeterminato fa tutto il senso dello sforzo e del volere, si che le voci stesse di volere e non volere non potrebbero distinguersi altrimenti da quelle di agire e non agire, d'agire con piacere o con pena, per un fine desiderato o imposto. Tutti sanno, che l'attività definita sotto questi ultimi caratteri non è la volontà; o vero bisognerebbe collocare questa nel verme come nell'uomo: il che è assurdo.

La volontà, che si attribuisce agli animali, non è che la determinazione sotto l'impero della passione è dunque la passione stessa, il desiderio, più un atto che ne è la conseguenza; non è già la rappresentazione semovente con la coscienza del suo potere. Certi esseri, dei meno lontani da noi, son dotati, è vero, di quella mobilità, suggetti a quelle variazioni, che la volontà produce nell'uomo ; ma l'attenzione, la riflessione, lo sforzo tanto più mancano loro: il che prova, che tutto è dovuto alla perfezione della sensibilità, e ai mutamenti rapidi delle impressioni di questi esseri. Li stessi animali ci porgono atti ragionati, o che sembrano tali, ma che si spiegano mediante un'intuizione, i cui risultati suppliscono nei casi semplici quelli della facultà discorsiva. Infine, li vediamo talvolta, e massime nei rapporti che formiamo loro con noi, esitanti, incerti, sospesi tra fini diversi. Questo librarsi delle passioni suppone il confronto dei beni con i mali, dei beni fra loro; e la determinazione che segue, è assai verosimilmente una scelta, poichè convien rigettare tutte le spiegazioni tratte dalla dinamica, le impressioni più ọ men forti, e l'equilibrio, e le risultanti: l'animale non è una bilancia; pure togliamogli la coscienza netta e raddoppiata de' suoi atti, che l'uomo deve tutta al suo proprio sforzo per modificare la passione, chiamando, ritenendo, allontanando tali o tali fra i motivi d'agire; non gli resterà più nulla di ciò, che noi chiamiamo deliberazione e volontà. Altrimenti lo vedremmo, come noi, evocare ad un bisogno pensieri nuovi e lontani a fine di risolversi; egli arriverebbe per opera delle convenzioni, e non più soltanto per abitudine, all'intelligenza e all'uso dei segni ; le vie del linguaggio gli sarebbero aperte. Che se pare di essere presso certi animali un'ombra di tali funzioni, come a dire in su 'l nascere; se noi l'ammettiamo per continuare l'analogia pur visibile delle specie or

ganiche; sară almeno ad un grado singolarmente basso e confuso, difficile a definire: l'uomo e l'animale non lasceranno di differire, come differiscono l'ordine della libertà e quello del sentimento, o per passare al punto di vista morale, l'ordine della giustizia e quello dell'innocenza. Alla libertà si connettono la riflessione e la ragione, al sentimento l'abitudine e l'instinto onde tutti i caratteri distintivi dell'uomo rientrano in uno, che è la volontà, non dimenticando però, che ogni grado di sviluppo si fonda su i precedenti, e per oltrepassarli li suppone.

C. RENOUVIER.

[ocr errors]

AL SIGNOR AGATONE DE POTTER

II.

Voi però soggiungete ancora: Noi non condanniamo il suffragio universale in sè stesso: ordinata una volta la società razionalmente, il suffragio non potrà essere che universale. Ma non lo crediamo utile per ricostruire, finchè non s'è d'accordo se non per distruggere. A me invece sembra tutto il contrario. Il suffragio universale, appunto perchè buono in sè stesso, perchè conforme all'ordinamento razionale della società, è il mezzo più sicuro ed efficace per giungere a quella meta. Alla libertà, alla giustizia, alla ragione non si può andare che per la via della libertà, della giustizia, della ragione. Che cos'è, insomma, il suffragio universale? È la forma propria della sovranità nazionale; è la condizione prima e suprema dell'autonomia sociale; è la sola instituzione, mercè di cui un popolo possa governarsi da sè stesso, possa non avere padroni, possa non riconoscere altra autorità che quella della ragione, del diritto, della giustizia. Ora chi mai potrebbe condurlo ad un ordine siffatto, s'egli non vi si reca da sè stesso ? Dovrà forse aspettare la libertà da' suoi tiranni? la verità da' suoi corrottori? la giustizia da' suoi nemici? il diritto da' suoi carnefici? Voi non lo pensate di certo; e poichè parlate sempre di ordine razionale, vuol dire che non riconoscete altra fonte, altra norma di tutti quei beni, fuorchè la ragione. Ottimamente! Ma la ragione di chi? Il sig. Colins grida sempre la ragione assoluta; ma le son parole, e nient'altro. S'egli si crede l'Assoluto in persona, in carne e in ossa, tal sia di lui: li altri uomini non hanno una simile opinione di sè stessi; e molto meno son disposti ad averla di Colins. L'Assoluto finora, che si sapia, non s'è mostrato in mezzo agli uomini,

« ZurückWeiter »